La tavola.
Quante storie può raccontare una tavola. Quanti argomenti difficili ha sentito, quante risate. Quante lacrime silenziose e monologhi, quanto supporto, di libri, di progetti, di mani, di cose dimenticate, di pastelli a cera e di “l’ho visto al supermercato e ho pensato a te”.
Può raccontare di vuoti e pieni, e di pieni che sono vuoti e vuoti che sono pieni.
La tavola racconta dei posti che ci assegnano e ci assegnamo, delle gambe agitate e delle mani strette sotto la tovaglia, di sostegno. Racconta di battaglie, può raccontare del modo in cui affrontiamo il dolore, di “quanto basta” che non riusciamo a quantificare: quanto basta perché io resti? Perché vada via? “Quanto [non] devo mangiare perché il dolore vada via?”
La tavola racconta anche dei posti vuoti, che non riusciamo a riempire neanche con tutto l’amore rimasto. È l’amica dei pasti in solitaria e sembra allungarsi quando si vuole riunirsi in tanti perché “tanto ci stringiamo, non c’è problema”.
La tavola racconta anche del Natale e del “cenone di Capodanno”, perché anche se può essere “diversa” perché addobbata, è sempre la stessa: circondata dalla vita.
Sono stata così fortunata, che per me Natale è sinonimo di “speranza” e io è questo che vi auguro, in qualunque tavola vi troviate: buon Natale, buon anno, buona speranza.
E ricordiamo che possiamo trovare la “nostra tavola” in tanti luoghi diversi: non smettiamo di provarci.
Quest’anno è stato tante cose, argilla tra le mani e argilla nella mente, ma alla me 29enne vorrei dire grazie, in particolare, per due esperienze che ha fatto nuovamente, dopo tanto bianco: tornare a prendere un aereo e tornare al mare — lo so, sembrano banalità, ma in realtà sono una fortuna.
In entrambi i casi, hanno portato a due “momenti di parole” importanti per me.
Londra, Regno Unito
Un ragazzo in intimo fumava la sua sigaretta, appoggiato alla ringhiera del suo balcone; lo faceva, avrei scritto, anzi lo scrivo, “con la leggerezza dell’abitualità e la sfacciataggine della giovinezza” e così tanto che avrei voluto potergli scattare una foto in bianco e nero, come fosse un’istantanea di un cortometraggio francese — perché francese, direte voi? Non lo so.
È stato dopo che è rientrato a casa, mentre una signora con un vestito coloratissimo e un turbante abbinato lavava un’auto sulla via e il vento sembrava muovere le assi di legno sotto i miei piedi,
è stato su un balcone a Londra, con quattro lacrime, sole e adulte e bambine insieme, con l’ennesimo cerotto, dei vestiti non miei addosso,
è stato così e a quasi (solo a?) a 30 anni che ho capito che non sento casa da nessuna parte, perché casa devo farmi io.
Varazze, Italia
La prima sensazione, oltre all’acqua, è salata. Sale sulle labbra, che si respira. Poi lo sentirò sulla pelle, tra i capelli. In stanchezza, di quella buona, di quella “bambina”.
“Ciao mare”. Accarezzo l’acqua, come se il rumore delle onde fossero fusa. Sento le mie amiche essere contente per me sulla riva.
L’ultimo bagno è del 2018, ma le emozioni non potevano nascere perché il terreno bruciava. Incendi, dopo incendi, che neanche l’acqua del mare avrebbe potuto spegnere. Andavo a fuoco.
Devo tornare al 2015, per ricordarmi come era. E non me lo ricordo. Non me lo ricordavo.
Sette lunghi inverni, inferni, sette corpi, strati di pelle, menti, ragnatele di pensieri dove sono il ragno e la mosca insieme. E tutti quei fili ingarbugliati.
In sette estati succede di tutto, o un niente che è tutto.
Prima di andare, mi lascio a peso morto. E mi sento di nuovo viva. Il rumore delle onde in lontananza, le stesse che mi stanno cullando. “Ti ho riportata al mare”, le dico. Vorrei quasi ridere. Passo la lingua sulle labbra perché ancora non ci credo.
La sera prima ho pianto, pensandoci. Chiudo gli occhi. Lacrime salate e acqua salata. Non ho paura, non sono all’erta.
Penso a lei, che è perché ha resistito - una tela di Penelope che ogni notte si rifaceva, quel poco che bastava per “farcela” - che sono qui.
Prima, il mare era fare lo scrub con la sabbia sul bagnasciuga, farmi sospingere dall’onda verso la riva quando stavo per uscire, cercare i vetrini colorati tra i sassolini.
Rifaccio tutte queste cose. Nei gesti mi rivedo, mi risento: “sei un pesciolino”, mi dicevano, “sono un pesciolino”, mi ritrovo a pensare. Quanta tenerezza. Forse è questa che mi salva ogni giorno.
Sono tornata al mare.
Dopo anni, dopo di lei, durante questa me che si sente ancora un’onda che non trova mai la riva.
Ma che quel giorno, per qualche ora, l’ha trovata.
Saluto il mare. “Ci vedremo presto”, mi faccio questa promessa.
Lui sbuffa, gorgoglia.
Lo guardo finché posso dal finestrino.
Le mie amiche stanno cantando.
È tutto vero.
Tengo nel cuore le loro voci e la salsedine.
2023 in libri
il libro che più ho amato: La cronologia dell’acqua, Lidia Yuknavitch
(Ed. nottetempo, traduzione di Alessandra Castellazzi)
il libro che più ho letto sino a tarda notte: Cieli in fiamme, Mattia Insolia (Ed. Mondadori)
il libro che più mi ha “deluso”: Tutto quello che so sull’amore, Dolly Alderton
(Ed. Rizzoli, traduzione di Veronica Raimo)
il libro che più mi ha sorpreso: La luce che è in noi, Michelle Obama (Ed. Garzanti)
Il mio augurio quest’anno, oltre alla salute, è di sviluppare il vostro coraggio.
Un abbraccio, stretto.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).