“I’m so glad I live in a world where there are Octobers.”
— L.M. Montgomery, “Anne of Green Gables”.
Caro ottobre,
quando ero bambina scalpitavo perché i “grandi” mi permettessero di attraversare la strada da sola: lasciare la mano degli adulti e percorrere le strisce pedonali, senza alcun aiuto — che poi, quando si è piccoli, sembra solo controllo.
“Non può essere così difficile.”
Oggi sono in quella fascia di età in cui ti rendi davvero conto quanto lo sia: scegliere verso quale strada andare, guardare da ogni direzione, perché la vita è imprevedibile e anche i suoi abitanti. E, in tutto questo, non dimenticarti di guardare il cielo, anche quello che spazia dentro di te. Di prendertene cura — perché, molte volte, presi dall’obiettivo, rischiamo di dimenticarci il fine.
In un mondo che ti vuole sempre performante e che non ammette che una via possa trasformarsi in sabbie mobili, quella mano, alcuni giorni, manca più di altri.
E, allora, “dimmelo tu, come si fa”, a imparare l’arte del lasciare andare.
Lasciare andare l’idea di non camminare abbastanza, che le strade future non potranno portarti a “casa”, l’idea di essere persa, quando in realtà, perdersi implica comunque un trovare qualcosa e non c’è mappa che possa prevedere la vita. Non c’è.
L’idea che non ci si possa perdere.
Mi siedo su una panchina e guardo le foglie autunnali cadere sulle strisce pedonali. L’autunno le lascia andare.
E vorrei fare così anche io con le mie paure, di questi quasi 30 anni che la società ti fa vivere più come una condanna che una promessa.
Le foglie cadono e le strisce pedonali non si vedono più.
E penso che, forse, la prima cosa da imparare è lasciare andare l’idea della strisce pedonali, di righe precostituite sulle quali scrivere la propria storia.
Perché a cercare sempre quelle strisce, chissà quante cose ti perdi. Quante cose, anche di te, non scopri.
Molte volte abbiamo gli occhi abituati a vedere solo un percorso — come iniziare l’università subito dopo la scuola /“beh, a 30 anni, insomma, quasi sposata dovresti esserlo” — e così gli altri diventano strade o deviazioni sbagliate a prescindere, incapaci ontologicamente di poterti rendere serena. Mi piacerebbero una scuola, un mondo, un dialogo, dove ci fossero “più ottobri”, più inviti a scandagliare se stessi, le proprie passioni — perché c’è altro, più inviti alla curiosità, ad andare oltre le strisce, oltre gli schemi mentali, oltre. Più inviti a lasciare andare.
Un mondo dove ci fossero più mani a guidarti fuori dai percorsi prestabiliti per portarti a scoprirti davvero. O dove ci fosse spazio anche per questo.
Perché, forse, se ognuno di noi costruisse la sua strada, ci incontreremmo anche tutti molto di più.
Ciao ottobre,
prenditi cura di noi.
“Consiglio della settimana”: percorrere una strada, reale o vostra invisibile, diversa dal solito e guardarsi attorno — e, se volete, condividere qui con noi “come è stato”.
“Cose belle”: una melodia che mi hanno fatto scoprire, “Lament” di Balmorhea. Meravigliosa.
“Cose belle da aspettare”: “Sempre tornare” di Daniele Mencarelli — che ho incontrato la prima volta con “Tutto chiede salvezza” (libro potentissimo), in uscita il 5 Ottobre.
“Ma soprattutto Daniele incontrerà se stesso, in un fitto dialogo silenzioso in cui interpreta e interroga senza sosta ciò che gli accade, con l'urgenza di divorare il mondo che si ha a diciassette anni, di comprendere ogni cosa e, su tutto, noi stessi: misurare le nostre forze, sapere di cosa siamo fatti, cosa può entusiasmarci e cosa spegnerci per sempre. Questo viaggio lo battezzerà infine all'arte più grande di tutte. L'arte dell'incontro.”
“Cosa leggerò questo mese?”: la lettura è il mio “luogo egoista”, dove non mi affido a liste o obblighi — e infatti questo mese, in un blocco del lettore, ho letto pochissimo; ho creato però un gruppo di lettura di sensibilità alla sosteniblità e questo mese leggeremo “Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi.” di Jonathan Safran Foer e tradotto in italiano da Irene Abigail Piccinini.
«Il messaggio di Foer è al tempo stesso commovente e doloroso, scoraggiante e ottimistico, e costringerà i lettori a rivedere il proprio impegno nel combattere ‘la più grande crisi che l’umanità abbia mai dovuto affrontare.» – Publishers Weekly
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un pò in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Un abbraccio e buona domenica.