davvero, un giorno, questo dolore mi sarà utile?
UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARÀ UTILE — Peter Cameron
(Edizione Adelphi, traduzione di Giuseppina Oneto; fotografia di JoJo Whilden)
James ha 18 anni e vive a New York. Finita la scuola, lavoricchia nella galleria d’arte della madre, dove non entra mai nessuno: sarebbe arduo, d’altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell’artista giapponese che vuole restare Senza Nome. Per ingannare il tempo, e nella speranza di trovare un’alternativa all’università («Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché»), James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite – la lettura e la solitudine –, ma per sua fortuna gli incauti agenti immobiliari gli riveleranno alcuni allarmanti inconvenienti della vita di provincia. Finché un giorno James entra in una chat di cuori solitari e, sotto falso nome, propone a John, il gestore della galleria che ne è un utente compulsivo, un appuntamento al buio... I puntini di sospensione sono un espediente abusato, ma in questo caso procedere oltre farebbe torto a uno dei pochi scrittori sulla scena che, come sa bene chi ha amato Quella sera dorata, chiedono solo di essere letti. Anticipare le avventure e i pensieri di James rischierebbe di mettere in ombra la singolare grazia che pervade questo libro, e da cui ci si lascia avvolgere molto prima di riconoscere, nella sua ironia inquieta e malinconica, qualcosa che pochi sanno raccontare: l’aria del tempo.
Non sapevo molto di questo libro, solo il titolo e, lo ammetto, ho deciso di leggerlo per questo. "Un giorno questo dolore ti sarà utile": una frase potente, che dice molto, ma solleva anche un sacco di domande; tutti i dolori, davvero? Quando e in che modo? Ma soprattutto, quello che mi chiedo, sempre: mi sarà utile, forse, ma anche nel senso che mi aiuterà a essere felice? O solo più consapevole?
Molte volte, le due cose non riescono a combaciare davvero.
La vita interiore di James, il protagonista, è molto profonda; lui avverte i limiti della comunicazione agli altri di questo suo mondo, come se dicesse "sento e penso troppo per metterlo dentro una parola", eppure ho avvertito che nella comunicazione con se stesso spazia in ogni suo angolo e, inoltre, una certa convinzione che gli altri lo possano capire agisce come limite nel suo comunicare.
Sicuramente James è un adolescente "diverso", ma penso anche che molto sia dettato dal fatto che si trova a confrontarsi con una generalità definita dalla società - e che lui accetta quando parla di tutti gli altri che "hanno la sua età" - dove è "normale" non essere così fragili, così pieni di dubbi, così persi a 18 anni.
Nel capitolo finale, quando dice "Come faccio a sapere cosa vorrò nella vita? Come faccio a sapere cosa mi servirà?", ci ho visto un po' la presa di coscienza del "chissà" e non ho visto il suo andare all'università come una sconfitta al suo sentire perché, secondo me, ha capito che può decidere se una cosa sia un mezzo e non necessariamente la meta finale; cosa gli impedisce, poi, di andare a lavorare in una biblioteca?
E ha avuto coraggio, è andato oltre e ha accettato che può portare avanti i suoi "no" verso qualcosa che non vuole fare, ma comunque non fermarsi e nascondersi e, così, imparare.
Forse è questo il senso del "un giorno questo dolore ti sarà utile": davanti a certi dolori, non puoi fare altro che dover prendere la decisione di comprenderli, smanettarli, conoscerli come casa tua, e, così, finisci inevitabilmente per capire e capire non vuol dire sempre "essere felice", ma sapere, almeno penso, come agire per esserlo nel modo migliore considerando se stessi.
Penso che James, con il confronto e capendo che sì, le parole non possono essere lo specchio di ciò che si sente, ma molte persone nascondono i propri pensieri e si può scoprire di essere più simile agli altri di quanto ci si percepisca diversi, possa imparare e quindi capire perché quello che ha fatto a John è sbagliato, che non tutto si può ridurre a una frase, un termine e a una grammatica corretta.
Lo stile di scrittura che intesse la trama è incredibile perché ti sembra di essere nella testa di James; vedi i suoi con i suoi occhi, vedi la sua psichiatra con la sua granitica convinzione che non potrà aiutarlo perché certe cose sono così come sono e, nello stesso tempo, con la curiosità di scoprire un nuovo linguaggio per vivere.
È interessante vedere il ruolo dei genitori, la loro difficoltà nel capire James e il cercare di fare cose concrete per aiutarlo; sua nonna, invece, lavora su un altro piano, l'ascolto e l'immedesimazione, il dire delle volte "in questo non posso aiutarti", il non fare sembrare un dramma ogni cosa - è un dramma non sapere a 18 anni cosa fare della propria vita? - e il cercare, comunque, di fare vedere un'altra prospettiva - perché, chissà, cosa potrà accadere e una scelta non porta necessariamente a una prigione.
Quando ho terminato il libro, ho pensato "non può finire così"; volevo una conclusione, ma poi ho sorriso: l'umanità di ognuno di noi, i nostri pensieri, sono in continuo movimento e non c'è conclusione, non a 18 anni comunque; l'autore ci fa vedere un pezzo di vita, soprattutto interiore, di una persona, magari più peculiare di altre, ma che sicuramente non può concludersi con una scelta.
È come incontrare qualcuno per strada, immaginarne la vita e poi lui gira l'angolo, e la sua vita continua: scrivere "e vissero tutti felici e contenti" è solo per le fiabe, così come sarebbe dire "ci fu solo dolore e mai redenzione".
"Poi però mi sono reso conto che, se non mi muovevo, quel terribile momento sarebbe andato avanti per sempre, e l'unica mossa che mi è venuta in mente è stata prendere il telefono, e l'unica parola che mi è venuta in mente è stata - pronto -"
Delle volte, bisogna dire "pronto", anche se non lo si è; vivere non può essere programmare ogni cosa, rimanere nel proprio mondo di pensieri dove tutto ha una logica, dove "ti conosci", e questo perché, anche parlando con il mondo, capisci che, se non per tutte le sensazioni c'è una espressione, è anche vero che una sensazione può non essere solo tua. E allora bisogna afferrare il telefono, anche se non si ha voglia, stringere i denti mentre si fa una conversazione che magari considererai "inutile" e vedere se lo sarà davvero. Se sarà "inutile", pace, ma non è buon motivo per chiudersi e non darsi la chance di essere felice nel modo migliore per ognuno.
Più che una recensione, è una riflessione, ma non so se con questo libro si possa davvero fare diversamente. Ed è un buon motivo per leggerlo.
“Consiglio della settimana”: la serie tv italiana “Volevo fare la rockstar” di cui andrà in onda a breve la seconda stagione (inoltre, è stata già rinnovata per una terza) e che è possibile recuperare su RaiPlay: la protagonista è Olivia, una ragazza di 27 anni, diventata adulta in fretta, avendo dovuto crescere due bambine da sola, e “in crisi esistenziale”; è un telefilm leggero, ma intriso della fragilità autentica della vita, delle domande che essa porta, del realismo del passato, ma anche della spinta della speranza e dell’accettazione.
“Cose belle da aspettare”: il nuovo libro di Chiara Gamberale, “Il grembo paterno”, in uscita il 28 Ottobre per Feltrinelli; ho conosciuto questa autrice tantissimi anni fa con “Per dieci minuti”, un romanzo capace di coniugare una scrittura immediata con la profondità — anche se di quelle in cui non vi affoghi — della trama o, meglio, degli interrogativi a cui cerca di rispondere. Sono molto curiosa di questo suo nuovo romanzo, dove la tematica e le premesse mi sembrano anticipare una profondità più spigolosa e meno smussata (che tendo a preferire).
“Dov'è che impariamo ad amare? Com'è che ci si ammala dentro, com'è che si guarisce?”
"Il grembo paterno" interroga la strana responsabilità che comporta non solo l'amore dato, ma anche l'amore ricevuto — Paolo Di Paolo.
«Chiara Gamberale ha finalmente affrontato il suo Grande Fantasma, trovando una lingua nuova e più matura; oltre la geografia dei sentimenti, ci consegna un vero e proprio romanzo di formazione» – Walter Siti
«Come ci educano ad amare le persone che amiamo? "Il grembo paterno" interroga la strana responsabilità che comporta non solo l'amore dato, ma anche l'amore ricevuto. Con pagine crepitanti, che attingono in modo nuovo a quel lessico che chiamiamo "famigliare", Chiara Gamberale ha scritto un romanzo ispiratissimo e commovente» – Paolo Di Paolo
Caro Ottobre, grazie per questo mese, dedicato alla incertezza, anche “digitale”, dei vent’anni.
— Le lettere delle scorse settimane.
Caro snodo informativo (sì, proprio tu), — il “tema sensibile” del mese: riflessione sul rapporto con i social.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un pò in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Come sempre, un abbraccio e buona domenica.