Frammenti di vita.
E tra gli scaffali della mia libreria, con il "tema sensibile" del mese di Gennaio.
Domenica, ed eccoci qui.
È un orario insolito e insolita sarà anche questa “nostra”. Potete immaginarla come un barattolo da cui pescare un frammento di vita; potete leggerla a pezzi, partire dal basso, leggerne solo il “paragrafo” che vi ispira: il filo rosso sarà sempre la vita — che, a dirlo, “sembra poco”, perché è ovunque, ma è questo ovunque a cui bisogna prestare cura e attenzione e gratitudine. E consapevolezza. E memoria.
Il “tema sensibile” di gennaio si lega al giorno della memoria — che ricorre il 27 gennaio. L’anno scorso lessi “La notte” [“ascoltai”], la testimonianza di Elie Wiesel; lo feci, però, da adulta, rispetto a quando studiai l’Olocausto [“compresi” a quell’età l’Olocausto e come si può comprendere in terza media], e avendo studiato un altro libro nel frattempo, un manuale questa volta, per l’università, ossia “La tutela internazionale dei diritti umani”, a molti anni di distanza, quindi, da quanto presi “Se questo è un uomo” in mano la prima volta.
Una testimonianza, del passato, e un manuale universitario del presente: l’attentato alla vita raccontato è dello stesso orrore. L’attentato alla vita di cui abbiamo “memoria” ogni anno è raccontato in sentenze anche del decennio passato e denunciato in realtà di oggi.
“È”.
E, se nella vita della Storia, l’Olocausto è avvenuto “l’altro ieri”, quelle sentenze parlano di due minuti fa.
Memoria, quindi. Ma anche consapevolezza. Gratitudine. Attenzione. Cura.
Di frammenti della (mia) vita.
Succede che, a volte, vediamo nitidamente quello che non c’è, e non sentiamo davvero il resto. È terribilmente umano, rendersi conto di quanto pesi qualcosa, quando quel qualcosa diventa difficile da afferrare o trattenere.
Dicono che le esperienze dolorose ti rendano più forte: vi confesso, io non ci credo molto, ma credo che rendano più consapevoli.
E la consapevolezza è un liquido che va ben dosato perché ti rafforzi, perché può essere anche veleno.
Così delle volte rimango spiazzata: ci sono dei momenti in cui riesco a cogliere pienamente la bellezza di così tante cose che si danno per scontate: guardare il cielo assolato, vedere le ore susseguirsi, passare le mani tra i capelli, cose così.
“cose così”.
Eppure sono così vive.
“cose così vive”
E allora, anche se delle volte vorrei fermare un estraneo e chiedergli “mi può dire come si fa, come si fa a vivere? perché mi sembra di sbagliare continuamente”, altre volte vorrei urlare alle persone “ma ti rendi conto di quanto sia prezioso, tutto questo? che i tuoi occhi sopportino il sole, che il tuo corpo ti porti dove vuoi, che...”
La leggerezza di questa consapevolezza mi colpisce con la stessa violenza delle onde che mi portano via e forse è questa la mia sensibilità, che con la stessa profondità in cui riesco a sentire la lama del dolore, sento anche il filo capace di ricucire.
E sarà anche solo un punto di sutura, magari destinato a strapparsi, ma saperlo sentire, saperlo sentire penso sia importante.
Così la mattina, anche se la marea continua incessante, quando mi sveglio e sento il delicato peso del gatto che dorme sulle mie gambe, quando mi alzo e sento il parquet sotto i piedi nudi ed è ancora mattina, anche se ho già le labbra salate per le onde, cerco anche di dirmi di concentrarmi su quello che c’è.
Di non darlo per scontato.
ero in macchina e a un certo punto ho pensato: con che pensieri farò la strada di ritorno? con quale notizia? guardavo le insegne, i lampioni e mi sono resa conto che, se fosse andata male, poi sarebbero state “quelle insegne”, “quei lampioni”, così come i vestiti che indossavo, i riccioli della dottoressa, quel bambino che mi ha visto dalla vetrata e mi ha sorriso e a cui sono riuscita a sorridere anche io, anche se lui non lo può sapere, perché avevo la mascherina. e al ritorno poi non so cosa ho guardato, galleggiavo nella gratitudine e nel sollievo, in quel lago denso che ti fa venire una stanchezza enorme sprigionato da una ancora più grande paura, ma ho pensato, di nuovo: la vita, la vita, la vita, quante cose ci convinciamo che pesino, che lasciamo che lo facciano, ma alla fine non contano, e noi, quando “possiamo”, ecco è questo “potere” di cui dobbiamo avere cura, per prenderci cura di noi e del nostro tempo, imparare a conoscerlo, questo “possiamo”, e non darlo per scontato, averne fiducia: darci le possibilità.
darci le possibilità.
datevi le possibilità.
“sensibilando” / il “tema sensibile” di gennaio.
— @sensibilandia, di nome e di fatto.
Frammenti di vita di Elie Wiesel.
“La notte” di Elie Wiesel (Ed. Giuntina, traduzione di Daniel Vogelmann) è una testimonianza.
Testimonianza che, come tale, va letta.
"Conoscere è necessario" ha scritto Levi. Conoscere è un dovere.
Ho studiato questo periodo storico, ho letto altre testimonianze; eppure, il "come è possibile che sia accaduto" nasceva in me, nella lettura, spesso, come se fosse la prima volta che leggessi di tali orrori.
Non sono abituata agli orrori. Un privilegio enorme.
Qualcosa che è andato a sgretolarsi in modo ineluttabile in quei luoghi di morte, in quei luoghi dove l’orrore è stato puro.
Ho letto "Se questo è un uomo" al liceo e ho avuto il privilegio di poter ascoltare Liliana Segre a scuola; anni dopo, studiando "Tutela dei diritti umani", ho letto sentenze che mi hanno fatto ugualmente rabbrividire in un modo che non so spiegare, ma questa volta la domanda che mi sono posta è stata "come è possibile che accada?".
Forse è questo, da adulta, avere la consapevolezza del mondo e di come, alla fine, nell'ottica della Storia, quel "periodo storico" sia in realtà l'altro ieri, a aver reso la lettura di questa testimonianza diversa. Guardarsi intorno e rendersi conto di quanto sia fragile e da preservare e proteggere l'umanità, di quanto anche adesso, nel nostro periodo storico, mentre io scrivo, mentre voi leggete, sia continuamente attentata.
Sui libri di Storia non può essere scritto tutto. E leggere qualcosa in quei capitoli, ti fa quasi pensare a quel periodo come "passato".
Leggere le testimonianze ti permette una "immedesimazione impossibile" che, a dirlo, sembra un controsenso, ma eppure è la chiave di tutto. In un luogo disumano, la testimonianza di orrori, dell'umanità che si infila in piccoli gesti, a volte, sgomitando con la morte. La testimonianza di cosa il vuoto della disumanità porti nell'uomo, nell'uomo che cessa di essere tale per altri uomini, diventando un numero, e che è portato a sentirsi solo uno "stomaco affamato" e un corpo da odiare perché "pesante".
La testimonianza di più notti che raccontano di uno stesso buio che — "se non è possibile comprendere" — va conosciuto, per fare in modo che le sue stesse radici "non siano più".
"Non accettavo più il silenzio di Dio." Questa testimonianza parla anche di ciò, aprendo un tema dal quale difficilmente si riesce ad emergere.
“L'ultima notte a Buna. Una volta in più, l'ultima notte. L'ultima notte a casa, l'ultima notte nel ghetto. L'ultima notte sul treno e, adesso, l'ultima notte a Buna. Per quanto tempo ancora la nostra vita si sarebbe trascinata da un'"ultima notte" all'altra?”
Elie Wiesel è morto il 2 luglio 2016 a New York, dopo decenni impegnati a tramandare la sua testimonianza.
La sua sorella minore, Zipporà, e i genitori, Shlomo e Sarah, non sono sopravvissuti alla shoah.
Della “grandezza” della vita.
“Consiglio della settimana” — «Volevo per me stessa un grande amore, ma non ha funzionato. Allora ho capito: quello che voglio è una grande vita»
“The Great”,
una serie tv disponibile su STARZPLAY.
“Fin da quando ero bambina mi sentivo destinata a qualcosa di grande, a una grande vita, come se Dio in persona mi avesse gettato su questa terra perché in qualche modo la trasformassi. Mi sentivo nata per un motivo, per uno scopo.”
“E perché vi ha fatta donna, allora?”
“Per divertirsi, immagino.
Quel sogno ora sembra solo una follia intrappolata qui. Eppure lo sentivo, ne ero convinta. Ci credevo sino in fondo.”
— “The Great” (2020 - in corso), 1x01.
“The great” è una serie tv liberamente ispirata (*occasionalmente accurata) alla storia di Caterina II di Russia con Elle Fanning e Nicholas Hoult come protagonisti e mi ha subito conquistata: visivamente, con i suoi colori — in alcune scene, mi ha dato un po’ di “Emma (2020) vibes”, ma anche per la narrazione, ironica tanto da sembrare “assurda”, ma intermezzata da alcuni dialoghi e riflessioni “sensibili e intellettuali”.
La tridimensionalità dei personaggi non è immediata, anche per la velocità dei dialoghi o il loro essere “improbabili”, ma c’è e, una volta colta, la si può riconoscere sotto l’“inverosimile”.
Il contrasto è in chiave moderna e non mancano le tematiche denunciate.
Ed è da uno stesso contrasto che tutta la vicenda si muove: la contrapposizione tra quello che Caterina si aspettava, una volta arrivata a corte, il suo ottimismo ingenuo, e quello che invece vi trova e che va anche contro il suo “sentire”; sposta quindi il suo ottimismo su un altro fronte, trasformandolo in determinazione: rendere la sua vita grande.
“Cose belle da aspettare” — «Un viaggio in cui la vita si manifesta furiosamente grande»
«Le situazioni pericolose, tristi, luttuose mi facevano vibrare come se solo nel dramma la vita si mostrasse davvero: nuda, integra, commovente».
“Libri che mi hanno rovinato la vita” di Daria Bignardi
che si promette di narrare “l’avventura temeraria e infaticabile di conoscere sé stessi attraverso le proprie zone d’ombra. E scrive un inno all’incontro, perché è questo che cerchiamo febbrilmente tra le pagine dei libri: la scoperta che gli altri sono come noi.”
Ciascuno di noi, anche solo per un istante, ha conosciuto l'irresistibile forza di attrazione dell'abisso. Daria Bignardi sa metterla a nudo con sincerità e luminosa ironia, rivelando le contraddizioni della sua e della nostra esistenza, in cui tutto può salvarci e dannarci insieme, da nostra madre a un libro letto per caso.
Il mio primo incontro con questa autrice è avvenuto proprio l’anno scorso a Gennaio, quando la mia prima lettura dell’anno è stata “Storia della mia ansia” (ed. Mondadori): vi lascio, di seguito, ciò che scrissi allora.
STORIA DELLA MIA ANSIA — Daria Bignardi
Scrivere un parere su questa lettura mi mette un po' in difficoltà, ma ci proverò.
"Storia della mia ansia" racconta il periodo di vita di una donna nel momento in cui scopre di avere un tumore al seno e, nel farlo, porta a galla tante tematiche tanto che, dato la brevità del libro, è come percepire tantissime punte di riflessioni della protagonista, ma senza poi trovare i rami di queste radici; è questo che mi è mancato, il "e quindi", lo scavare e non lo scalfire, il scendere in profondità e leggere di un percorso e non di un inizio; a fine lettura, infatti, mi è sembrato come di aver letto una "prima puntata", come se i capitoli finali fossero perfetti per l'inizio di un romanzo. Questa sensazione di "in potenza" mi ha accompagnata per tutto il libro: molte frasi racchiudevano chiavi di riflessione entusiasmanti, ma poi rimanevano lì, la prima nota di una musica che poi non è stata scritta. Ma forse il libro vuole essere proprio questo, raccontare del principio e basta. Del rendersi conto di "essere in guerra" e non del "dopo".
Perché, d'altronde, "non si prendono decisioni in tempo di guerra" - e forse la risposta alla mia domanda finale è proprio questa.
Lo stile dell'autrice ho potuto apprezzarlo particolarmente nei periodi lunghi e quando si soffermava, senza esagerare, nelle descrizioni, scendendo così più in profondità. Vi ho colto sensibilità e capacità di navigare nei sentimenti che ti farebbero più annegare, sapendoli descrivere bene.
Sono rimasta un po' delusa dalla scelta dell'epilogo del rapporto tra Lea e Luca; speravo in un finale (pur consapevole che sarebbe stato di quella tipologia, per loro - e, in particolare, per lui, ma non riferendomi a questo però) più particolare, più "ostico", se vogliamo, da affrontare e da svelare per la protagonista. Così come speravo in un epilogo diverso con il marito o, comunque, in una presa di coscienza della protagonista a questo riguardo. Ma la questione, penso, è sempre la stessa e cioè che questo è un inizio.
L'ansia sembra non avere tanto spazio, ma non è così; c'è, anche se in modo sottile e il titolo è sicuramente un po' forviante; mi aspettavo un libro che parlasse di questa malattia e non del cancro, ma si può cogliere, nei capitoli finali, come la protagonista ne abbia preso coscienza come di qualcosa che può averla influenzata e la influenzi, senza che, per farlo, debba per forza irrompere con la forma di un attacco di panico.
Perché anche l'ansia silenziosa è distruttiva e non deve, per forza, fare "rumore" per avere lo stesso effetto catastrofico di una bomba.
Il problema è che rimane sempre la domanda "e quindi?"
E quindi, direbbe l'autrice, forse, "non si prendono decisioni in tempo di guerra".
Quella è un'altra storia.
Dei libri di questo mio gennaio di vita.
Cosa ho letto: ho terminato “Una vita come tante” di Hanya Yanayihara e continuo a rimandare consapevolmente il momento in cui scriverò la recensione (le mie riflessioni) — lascio un po’ sedimentare, anche se penso “non si sedimenterà” mai questa lettura —, ma vorrei condividerle con voi la prossima settimana e quindi, ecco, siete avvertiti; questo mese ho anche letto “Come scrivere una tesi di laurea” di Umberto Eco e, per chi fosse curioso, lascio “qui sotto”, accompagnato dalla nostra solita linea verde, il mio commento al riguardo.
Ho deciso di acquistare questo libro perché sto scrivendo la tesi ed ero “curiosa”. Concordo sul fatto che alcune parti siano “fuori tempo” e che, volendo, le nozioni pratiche si possono apprendere in altri modi, ma questo capita spesso: si può imparare qualcosa “sbattendoci la testa” e venendo corretti o, ancora, “osservando”, oppure tramite un manuale che vuole essere didattico e che chiaramente ti dice “cosa va fatto” e “cosa no”. Penso sia per questo che il libro di Eco è (ancora) prezioso. Se si è già famigliari con la scrittura, le monografie e si sono già scritte alcune tesine, “Come si fa una tesi di laurea” può essere un buon ripasso, una via anche “rassicurante” da percorrere e un libro da tenere sulla scrivania mentre si lavora alla tesi, “per controllo”; in caso contrario, diventa indispensabile per avere delle coordinate da seguire. Quello che ho trovato però il punto “forte” di questa lettura è il metodo che si vuole raccomandare e che, come metodo di analisi (per procedere), penso sia utilissimo per tanti aspetti legati allo studio. Da amante e utilizzatrice seriale di evidenziatori e della tecnica “a colori”, è stato bello vederla “riconosciuta”, ma per chi non è pratico, venire a conoscenza di tanti modi per “mettere in ordine” il proprio lavoro è sicuramente utile. Per questa ragione, è un libro che consiglierei a chiunque voglia affinare il proprio metodo di lavoro o impararne uno perché alla fine è il “filo rosso” che c’è dietro che è importante e questo non cambia al cambiare degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione. Già leggerlo al liceo potrebbe fare la differenza. Per quanto riguarda più propriamente la tesi, avrei voluto leggerlo prima di aver affrontato l’indice; sarebbe bello che consigliassero di leggerlo nell’anno in cui si vuole scrivere la tesi di laurea e più che per quello che consiglia — che, come dicevo, si può aver già appreso, per quello che sconsiglia.
Cosa sto leggendo: un po’ di poesia, con una vecchia raccolta del Corriere della Sera di poesie di Eugenio Montale e uno YA, “The Queen of the Tearling” di Erika Johansen — che al momento non mi sta convincendo tantissimo; in “pole position” sul comodino ho invece “Il grembo paterno” di Chiara Gamberale — una delle “cose belle da aspettare” di cui vi avevo parlato a suo tempo e che mi è stato donato a Natale.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Buona settimana in arrivo
e un abbraccio.