La “(in)consapevolezza (in)sostenibile”
Informarsi è la chiave.
Oggi, per informarsi, sembra che basti poco: una ricerca su internet, da dovunque tu sia, e puoi accedere a tantissime informazioni, un numero esorbitante. La vera chiave, però, è imparare a discernere le informazioni, in un mondo digitale dove tutto può sembrare autorevole, e sviluppare uno spirito critico e da questo ripartire. Per altre ricerche, per altre informazioni.
“Sostenibilità ambientale”.
La sensazione che si ha è come quella di quando apri un armadio dove, nel corso del tempo, hai stipato di tutto — nell’ottica del “domani trovo una sistemazione migliore/può sempre essermi utile” — sicché, quando lo apri, l’effetto è quasi a valanga.
Così, a voler intraprendere uno stile di vita più sostenibile, non sai da dove iniziare — anche se, sicuramente, occuparsi di quell’armadio nell’ottica del riuso e del riciclo, è un buon primo passo. E più ti informi, più rispondere alle domande “ma è anche socialmente sostenibile? Ed economicamente?” diventa complicato, perché ti sembra di non riuscire mai a fare una scelta “giusta” — e questo, se vogliamo, da bene l’idea delle dimensioni del problema e delle varie interconnessioni.
Le anime della sostenibilità, infatti, sono tre, riconosciute in varie conferenze internazionali promosse dalle Nazioni Unite: ambientale, economica e sociale. Questi tre fattori contribuiscono a dare sostanza al principio dello “sviluppo sostenibile” definito come uno sviluppo in grado di assicurare “il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri” (definizione proposta nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, la Commissione Bruntland).
In una puntata della serie tv The Good Place (una delle serie migliori che abbia visto negli ultimi anni, ma ne riparleremo) viene detto, appunto, come nel mondo di oggi fare una scelta “giusta” in questi termini sia praticamente impossibile.
Questo non vuol dire che non si possano fare scelte migliori.
E il punto di partenza è sempre informarsi, capire i fili rossi della tematica che si sta affrontando, avere così delle coordinate in cui muoversi.
La sostenibilità ambientale è forse la prima a cui ci si approccia, forse quella che ha maggiore visibilità — o forse bisogna solo imparare dove guardare. Si parla di plastica, di pulizia dei mari e degli oceani, del consumo d’acqua nell’industria dell’alimentazione e del vestiario, dell’impatto degli allevamenti intensivi; termini come “riciclato”, “biodegradabile”, “compostabile”, “da materiale sostenibile”, compaiono sui nostri prodotti.
La verità è che si tratta, prima che di una tematica sociale, di una materia legata a tante altre discipline, in primis le “scienze della Terra”. Leggere e informarsi con cognizione di causa richiede quindi approfondimenti e tutto questo è necessario per poter sviluppare una consapevolezza al riguardo.
Penso sia quella la strada, come per ogni cosa: coltivare consapevolezza permette di avere una bussola per orientarsi nelle scelte, contribuendo anche a sdoganare l’idea che, per fare scelte sostenibili, si debba cadere per forza nell’estremismo o che le due cose coincidano.
Imparare, parlare delle proprie scelte e confrontarsi, accettando il contraddittorio, imparando così nuovamente: tutto questo mette in circolo idee e le idee, in positivo come in negativo (come dimostra la Storia), possono cambiare il mondo.
“[…] e le idee possono tramandarsi da una generazione alla successiva”
Questa frase — di David Attenborough — potrebbe essere una delle risposte più efficaci sul perché è necessario parlare anche di sostenibilità — così come di educazione alimentare o alla salute mentale, per fare qualche esempio — nelle scuole.
Leggendo circa la realtà dei “rifugiati climatici”, figura che a livello internazionale non ha ancora ricevuto un riconoscimento formale — non essendo riconducibile alla definizione di “rifugiato” data dalla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, ho letto questa frase, che ho salvato, ma di cui purtroppo non trovo più la fonte:
“However worse the climate crisis gets now depends on how quickly society transforms. How quickly society transforms depends in how many people demand it. The most harmful lie being spread about climate change today is not that it is fake. It’s that nothing you can do can help save the world.”
Perché il punto è che, di fronte alle tantissime notizie e informazioni davanti a cui ci troviamo, non si può non provare per un attimo un senso di impotenza, di enorme sconforto, come se “non si potesse fare nulla”.
Ma così non è.
Sapere e quindi fare scelte consapevoli può fare la differenza, così come mettere in circolo idee che possono fare la differenza.
La frase che ho riportato prima è di David Attenborough, naturalista e divulgatore scientifico, ed è tratta dal documentario “A life on our planet” (2020) — che potete trovare disponibile sul catalogo di Netflix.
È stata la visione di questo documentario che mi ha portato a scrivere questa newsletter e a cercare di comprendere meglio, al di là degli articoli letti ogni tanto, questa materia (da persona estranea alle materie scientifiche che ho abbandonato sui banchi di scuola dal punto di vista didattico).
La chiarezza con cui David Attenborough si rivolge a tutti, spiega e riporta la sua esperienza e la sua conoscenza è incredibile ed è utile per trovare un sacco di snodi nella tematica della “sostenibilità ambientale” da cui partire per avvicinarvisi.
Dalla visione di questo documentario emerge chiaramente quanto la natura sia un insieme di protagonisti tra loro interconnessi e di cui noi facciamo parte, ma di cui, soprattutto, dobbiamo ricordarci di esserne parte, “prendendoci cura della natura così che la natura si prenda cura di noi”, consapevoli che “una specie può prosperare solo quando prospera anche tutto il resto attorno ad essa”.
E se da una parte, davanti alle crisi climatiche di cui si parla e allo spaventoso scenario futuro prospettato se nulla cambia, si prova sgomento, dall’altra questo documentario da anche speranza, riportando esempi di realtà, di Stati, che hanno deciso di intervenire:
“Palau è un’isola-Stato del pacifico che dipende dall’esistenza della sua barriera corallina per la pesca e il turismo; quando le autorità notarono che i pesci scarseggiavano a causa della pesca intensiva si sono impegnate nella creazione di parchi marini: all’interno delle riserve, i pesci hanno avuto il tempo di crescere e riprodursi e quando il loro numero è aumentato sono tornati a popolare le acque dove la pesca era ammessa — studi suggeriscono che, se trasformassimo un terzo delle coste del Pianeta in riserve marine, il pesce per sfamarci non mancherà mai.”
“I Paesi Bassi sono una tra le nazioni più densamente popolate al mondo, come conseguenza gli olandesi hanno imparato a sfruttare nel migliore dei modi ogni singolo ettaro disponibile; e hanno imparato a farlo in modo sostenibile: i raccolti sono dieci volte quelli di due generazioni fa e allo stesso tempo impiegano meno acqua, meno pesticidi e meno fertilizzanti. Nonostante le dimensioni ridotte, i Paesi bassi sono il secondo più grande esportatore di cibo. — se la nostra dieta fosse prevalentemente basata sulla verdura avremmo bisogno di metà della terra che usiamo in questo momento.”
“Un secolo fa tre quarti del Costa Rica era foresta. Nel 1980, a causa della deforestazione, si era ridotta ad un quarto del territorio dello Stato. Il governo prese in mano la situazione e, attraverso incentivi di varia natura, è riuscito in venticinque anni a riconsegnare metà del paese alla foresta. — dovremmo fare lo stesso in tutto il Pianeta, le ritrovate porzioni di foresta ci aiuterebbero nella lotta al cambiamento climatico.”
Certo, “sulla carta” sembra tutto più semplice, ma, come dice David Attenborough, noi siamo la specie vivente più intelligente mai vissuta sul Pianeta e questa intelligenza può aiutarci a invertire la rotta sulla quale ci siamo messi — e se un tempo non c’erano le conoscenze per capire gli errori, per svilupparne la consapevolezza, adesso, invece, ci sono e anche, soprattutto, per capire le soluzioni.
“I cambiamenti climatici ci sono sempre stati” e questo è vero, ma basta guardare ai dati riportati nel documentario per capire la differenza e, soprattutto, chiedersi se l’umanità possa sopravvivervi.
“Come dimostrano le linee della stratificazione rocciosa, troppa anidride carbonica nell’atmosfera è incompatibile con la vita. Ci sono voluti milioni di anni di attività vulcanica per formare ciascuna di quelle linee, noi stiamo formando la prossima in meno di 200.”
“Non ci sono precedenti negli ultimi 10.000 anni di storia. Il ghiaccio polare si è ridotto del 40% in 40 anni. Il ghiaccio sta scomparendo dal Pianeta. L’habitat dei poli è prossimo al collasso.”
Vi consiglio assolutamente il documentario, la capacità esplicativa di David Attenborough e le immagini non possono che arricchire il contenuto, ma, nel caso non aveste il tempo per vederlo, vi lascio qui il link di un articolo di The Green Army che, proprio per questa ragione, ne ha trascritto il contenuto — da cui proviene anche il virgolettato di cui sopra.
“Chernobyl è l’esempio perfetto: nei trent’anni di abbandono la natura si è impadronita della città. Piante e alberi si intrecciano con i palazzi e gli animali camminano per stanze che una volta erano abitate da famiglie. Per quanto i nostri errori possano essere grandi, la natura è in grado di superarli. Noi, al contrario, non possiamo farlo. Se vogliamo continuare ad esistere, dobbiamo imparare a convivere con il resto del Pianeta.”
Del “diritto umano al clima”.
La crisi climatica riguarda tutto il mondo e, sebbene ognuno di noi possa fare la differenza, è come mondo e in maniera unita che è necessario muoversi.
La domanda che annaspa tra i pensieri in modo preponderante dopo essersi informati è solo una: “cosa stiamo facendo?” In negativo, retoricamente, e in positivo, invece, come per rassicurarci che non siamo fermi davanti a questa crisi e per chiedere che sia fatto qualcosa.
Che passi sono stati fatti — ovviamente qui solo accennandoli?
A livello internazionale, la Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) è stata adottata nel 1992 (Rio de Janeiro) nell’ambito della Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED) ed è entrata in vigore nel 1994, con l’obiettivo di “impedire pericolose interferenze di origine umana con il sistema climatico mondiale”, ma rimanendo un accordo non legalmente vincolante.
Il principale organo decisionale dell’UNFCCC è la Conferenza delle Parti (COP) dove sono rappresentati tutti gli Stati parte alla Convenzione; questa si riunisce annualmente — la prima si è avuta nel marzo del 1995 a Berlino — e rappresenta il luogo di incontro dove viene posta l’attenzione su “quello che è stato fatto e quello che è ancora da fare”; la decisione viene presa per consenso. E, se vi state chiedendo quest’anno dove si è tenuta, la risposta è che si terrà proprio da fine Ottobre a Glasgow, nel Regno Unito (anche se ci sono richieste di rinvii).
Nell’ambito di uno di questi incontri, nel 1997, è stato approvato il “Protocollo di Kyoto”; si è dovuto però aspettare il 2005, con l’entrata della Russia, affinché diventasse vincolante in quanto era richiesto che fosse sottoscritto “da un numero di Paesi industrializzati tali per cui la somma delle loro quote di emissione di gas climalteranti superasse il 55% delle emissioni totali del pianeta.” Questa volta, si impegnavano gli Stati Parte a una riduzione quantitativa delle proprie emissioni di gas climalteranti (che riscaldano il pianeta) rispetto ai livelli del 1990 e in percentuale diversa da Stato a Stato.
Un primo periodo di adempimento ha rivestito l’arco temporale dal 2008 al 2012; successivamente, in attesa di definire un nuovo piano, nel 2012 è stata estesa la validità del Protocollo sino al 2020 con obiettivi definiti comunque insufficienti. Inoltre, diversi Stati ne sono usciti.
Si arriva quindi al 2015 quando, nell’ambito della COP di Parigi, è stato approvato l’“Accordo di Parigi” che è entrato in vigore l’anno successivo quando si è raggiunto il numero necessario di Stati ratificanti richiesto dalla clausola di cui sopra.
“L'accordo di Parigi stabilisce un quadro globale per evitare pericolosi cambiamenti climatici limitando il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2ºC e proseguendo con gli sforzi per limitarlo a 1,5ºC. Inoltre punta a rafforzare la capacità dei paesi di affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici e a sostenerli nei loro sforzi.”
Nel dicembre 2018 è stato adottato, nell’ambito della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, il “Pacchetto di Katowice” volto a rendere operativo l’Accordo di Parigi, definendo il quadro di regole da seguire.
Tra gli aspetti criticati, la questione legata all’assenza del riferimento ai diritti umani.
Il riferimento ai diritti umani è, tra le altre cose, interessantissimo, legandosi al tema (recente) del contenzioso climatico.
Amnesty spiega in maniera chiara quanto i diritti umani siano fortemente collegati ai cambiamenti climatici e non può che colpire la frase di apertura della pagina, del Segretario Generale Kumi Naidoo:
“Il cambiamento climatico è una questione di diritti umani non solo perché i suoi impatti devastanti incidono sul godimento dei diritti umani, ma anche perché è un fenomeno creato dall’uomo che può essere mitigato dai governi.”
“Che può essere mitigato dai governi”; si può “pretenderlo”?
Qui entra in gioco la tematica dei “contenziosi climatici” e vi invito a guardare questo sito dove vengono riportati i contenziosi, anche pendenti, in tutto il mondo.
Cercando tra le giurisdizioni quella italiana, viene riportato un solo caso, del 5 Giugno 2021 e ancora pendente davanti al Tribunale Civile di Roma.
Si tratta della prima causa climatica italiana.
L’azione legale è stata promossa nell’ambito della campagna di sensibilizzazione “Giudizio Universale” e vede come ricorrenti 24 associazioni — tra cui l’Associazione A Sud (da cui il nome della causa nel sito), 17 minori (rappresentati in giudizio dai genitori) e 162 adulti i quali, appunto, citano in giudizio lo Stato chiedendo che sia ritenuto responsabile di inadempienza nella lotta al cambiamento climatico e che sia condannato (non a un risarcimento) “a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, applicando il principio di equità e il principio di responsabilità comuni ma differenziate = ossia tenendo conto delle responsabilità storiche dell’Italia nelle emissioni di gas serra e delle sue attuali capacità tecnologiche e finanziarie.”
Oltre che a fare riferimento (come fonti dell’obbligazione rispetto alla quale si vuole vedere dichiarato inadempiente lo Stato) ai diversi strumenti internazionali nella lotta al cambiamento climatico a cui si è impegnata l’Italia (tra cui, ovviamente, l’Accordo di Parigi) così come a specifici regolamenti UE, si pone l’attenzione, appunto, sul nesso tra i diritti umani e l’emergenza climatica, sostenendo l’esistenza di “un diritto umano al clima stabile e sicuro, in capo a ogni essere umano, ineludibile e necessario per il godimento di tutti i diritti fondamentali a beneficio della presente e future generazioni”.
Il riferimento alle generazioni future è paradigmatico — anche nell’ottica della definizione data anni prima dello “sviluppo sostenibile” da cui oggi siamo partiti — e nell’azione legale ci si allaccia anche al rispetto dell’art 14 della CEDU che pone un divieto di discriminazione da leggere in combinato disposto, insieme, ad altri articoli, come l’art 2 (il diritto alla vita) e l’art 8 (rispetto della vita privata e famigliare): il punto è che, non facendo niente, verranno discriminate le generazioni future.
In poche parole, si chiede allo Stato di essere sostanzialmente quel “custode del proprio sistema climatico” che si è impegnato ad essere formalmente.
Nel link, una delle fonti e un approfondimento di carattere giuridico.
Si è detto che si tratta della “prima causa climatica italiana”, ma non della prima a livello internazionale, essendoci dei precedenti che, seppur pochi, rappresentano, a livello giuridico, una “pretesa”, non più solo esigenza, di cambiamento.
A questo riguardo, da una ricerca, spicca la recente decisione della Corte Federale Costituzionale di Karlsruhe (Germania) che ha dichiarato la incostituzionalità di una norma nazionale, la Legge Federale sui Cambiamenti Climatici. Anche in questo caso, si fa riferimento a un “dovere di protezione delle generazioni future” a cui può dare luogo il dovere di protezione dello Stato: alla base, l’idea che l’obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030 che si è dato lo Stato “nella realtà porrebbe a carico delle future generazioni sforzi ancora più gravosi e urgenti dopo il 2030 […] Più specificamente, i giudici precisano che le disposizioni di legge sull'adeguamento del percorso di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra «a partire dal 2031 in poi non sono sufficienti» a garantire che la necessaria transizione verso la “neutralità climatica” sia raggiunta nel tempo. […] Per tali ragioni, la sentenza riconosce dunque che le disposizioni contestate violano le libertà dei denuncianti, alcuni dei quali sono ancora molto giovani e hanno un effetto di interferenza anticipata sulla libertà ampiamente tutelata dalla Legge fondamentale.”
Arrivando all’estate che ci siamo lasciati alle spalle, proprio in Italia, a Napoli, c’è stato il G20 — incontro internazionali delle principali economie mondiali — su ambiente, clima, energia.
Rimandando a un articolo di Wired, questo è presentato come un “fallimento” in quanto “Cina e India hanno infatti rifiutato di sottoscrivere l’impegno collettivo a mantenere il riscaldamento climatico al di sotto di 1,5 gradi ed eliminare il carbone come fonte energetica entro il 2025. I due punti esclusi dall’accordo sul clima, raggiunto dai ministri dell’energia e dell’ambiente dei 20 paesi più ricchi del mondo, sono fondamentali per limitare l’aumento delle temperature ed evitare le conseguenze disastrose che comporta il riscaldamento globale.”
Qualche giorno e si arriva al 9 Agosto quando è stato pubblicato il rapporto sul clima del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Ipcc) delle Nazioni Unite a cui hanno lavorato scienziati di tutto il mondo.
Il messaggio — l’“appello disperato” — è chiaro: alcuni danni sono già irreversibili (e continueranno a verificarsi), è colpa dell’uomo, ma abbiamo ancora una piccola finestra temporale per agire, per evitare che quei danni degenerino a tal punto da mettere a rischio l’esistenza delle generazioni future.
“Un codice rosso per l’umanità”, così è stato definito il rapporto dal segretario generale dell’ONU
“Questo è il momento, o si agisce ora o non avremo più tempo”, è il disperato appello del presidente della Conferenza mondiale dell’Onu sul clima, Alok Sharma.
* Nel caso non aveste letto il sunto di carattere giuridico di cui sopra, si parla della Scienza, con le sue acquisizioni e i suoi risultati, come “vincolo normativo” nella discrezionalità pubblica statale. Inoltre, tra i principi cardine della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (da cui siamo partiti, spostando lo sguardo agli strumenti internazionali in materia) troviamo “il fatto che la mancanza di una piena certezza scientifica non è una ragione per posporre misure di prevenzione e mitigazione”.
Ad oggi, si guarda quindi alla COP26, la 26esima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite che si terrà a Glasgow tra il 31 Ottobre e il 12 Novembre — la quale, inoltre, è stata organizzata in partenariato con l’Italia che ospiterà a Milano un evento per i giovani e il vertice Pre - Cop a fine settembre.
Se il rapporto sul clima non fosse abbastanza terrificante, speriamo che il 31 Ottobre sia una data di buon auspicio perché lo diventi per tutti.
Lo sviluppo sostenibile è stato definito come quello sviluppo che non compromette le possibilità delle generazioni future di realizzare i propri bisogni, possibilità che, invece, la Scienza di tutto il mondo “ci urla” che stiamo compromettendo; praticamente ogni Stato si è impegnato a essere, soprattutto in vista di quelle generazioni future, il “custode” del proprio sistema climatico e di impegnarsi al riguardo, un aspetto che i contenziosi climatici, con il riferimento ai diritti umani, hanno messo in luce; l’uomo è l’essere vivente più intelligente mai vissuto sul Pianeta, la stessa intelligenza che rende possibile alla Scienza di avvertirci e che ci permette di essere “lungimiranti” — anche se, purtroppo, il ritardo che stiamo già scontando rende il termine un pò obsoleto —, la stessa che ci aiuta e ci può aiutare “a trovare le soluzioni”: David Attenborough parla della “saggezza”, alla fine del documentario, come della marcia in più di cui ha bisogno l’uomo per affrontare questa crisi e non è questa legata alla lungimiranza? Lungimiranza che non riguarda solo quello che “accadrà se non”, ma anche, nascendovi, quello che sta già accadendo nonché tutto quello che potrebbe cambiare in positivo — perché è una tematica che se ne interseca ad altre in tantissimi modi e che riguarda alla fine come vogliamo vivere (oltre che il “se”).
Penso che il primo atto verso una vita più sostenibile, e che forse è insostenibile non fare, sia informarsi; l’ho fatto anche per scrivere questa newsletter, ma ovviamente non sono una esperta formata in materia e quindi chiedo scusa se dovessero esserci errori o inesattezze; inutile dire, poi, che è una questione così globale e complicata (basti pensare che si interseca a un discorso economico, di sostenibilità economica così come sociale) da toccare temi che pongono altre domande che necessitano risposte: l’idea del “tema sensibile” mensile, anche di questa “lettera” quindi, non è di “farla semplice”, ma, senza pretese, di mettere in circolo spunti di interesse, punti di vista, riflessioni.
Perché alla fine, grazie a tutto ciò, ci si informa e, chissà, poi ci si ritrova a citare lo Stato in Tribunale.
“Consiglio della settimana” — due film basati su storie vere: “Dark Waters” (2019) incentrato sulla battaglia legale di Robert Bilott contro la società di produzione di prodotti chimici DuPont a seguito dello scandalo dell'inquinamento idrico di Parkersburg; “Big Miracle” (2012) su un’operazione internazionale per salvare le balene grigie intrappolate nel ghiaccio nei pressi di Point Barrow, in Alaska, nel 1988 (questo film, in particolare, è adatto anche a un pubblico più giovane).
“Cose belle da aspettare”: la mostra di fotografie naturalistiche “Wildlife Photographer of the Year”, a Milano dal 1 Ottobre 2021 al 31 Dicembre 2021.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un pò in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui”.
Un abbraccio, grazie davvero se siete arrivati “sin qui” e buona domenica.