Caro snodo informatico (sì, proprio tu), (ma anche albero, balena)
cosa hai fatto o pensato durante l’internetdown di lunedì?
“Cosa avete fatto o pensato durante l’internetdown di ieri?”
Ho posto questa domanda sui social questa settimana, proprio su quei social che lunedì hanno smesso di funzionare, per ore.
Devo essere sincera, io me ne sono resa conto tardi perché quel giorno non ero molto presente su quella parte dell’enorme mondo invisibile che è internet — Twitter regna sovrano.
Dei tre social che non hanno funzionato, è stato whatsapp di cui mi sono accorta prima e di cui penso si sia necessariamente accorta anche la generazione che non ha, magari, gli altri due — che è un pò quella che dice spesso “state troppo tempo sui social”.
Whatsapp, oramai, è diventata quella che, a definizione di molti, è “una necessità”.
E in quelle ore nessuna notifica. Nessun suono legato ad essa. Silenzio.
Quasi dimenticandoci che esiste il telefono e i buoni cari sms (nonché altri servizi di messaggistica), c’è stato un momento in cui magari abbiamo pensato “e come faccio se […]?”.
Non mi riferisco a situazioni dove c’è l’esigenza e l’urgenza di comunicare — dove sicuramente chi ha avuto bisogno ha chiamato o si è messo in contatto in altri modi — ma “al resto”; se ci pensiamo, sembra che la messaggistica istantanea abbia reso tutto urgente, urgente magari non nel contenuto, ma nella richiesta di essere visto e i due aspetti hanno finito per sovrapporsi e confondersi. E, paradossalmente, proprio mentre siamo nel mezzo di una conversazione con qualcuno “in carne ed ossa”, con qualcuno che la cui presenza implica, non solo per educazione, ma anche per dare sostanza genuina alla forma che assume in quel momento la parola “socialità”, di essere “visto”, ci ritroviamo magari a guardare il telefono.
Anni fa ho tolto l’accesso su whatsapp e poi le fantomatiche “spunte blu”, fantomatiche perché su questo fronte ho notato che le persone si dividono: c’è chi “non sopporta” chi non le ha e chi, invece, ha cambiato le impostazioni per non averle.
Io penso che l’educazione debba esserci sempre, in questo contesto come negli altri, ma che non possiamo essere costantemente reperibili: non possiamo esserlo fisicamente, ma non possiamo esserlo neanche mentalmente, in alcune circostanze più di altre.
Penso che una delle problematiche argomentative, se così vogliamo chiamarle, sia la questione velocità: velocemente puoi scrivere un messaggio, altrettanto velocemente potresti rispondere e ti aspetti che gli altri lo facciano — ai tempi delle lettere, sicuramente, chi ne inviava una non controllava il giorno stesso la propria cassetta della posta.
“Non è vero che non si trova un minuto per rispondere a un messaggio”: questo è vero — e, se vogliamo, possiamo andare a vedere quanto tempo passiamo su un social qualsiasi e renderci conto a quanti messaggi, tra le altre cose, avremmo potuto rispondere in quel frangente.
Così ci viene l’ansia di essere maleducati, se non rispondiamo subito, o che l’altra persona pensi che “non ci interessi” o ci sentiamo così, se qualcuno non ci risponde in poche ore. Ma sono certa che ognuno di noi può pensare a un messaggio a cui non ha risposto appena visualizzato e non perché volesse essere maleducato o non gli interessasse la persona in questione.
Perché magari.
Perché magari aveva deciso di andare a correre, si era ritagliato quel tempo dopo il lavoro e ha pensato “rispondo appena arrivo a casa”. Perché magari non sta bene e, per ricaricare le sue batterie sociali, ha proprio bisogno di “staccarsi” dai social. Perché magari è proprio su instagram a guardare video di gatti, proprio in quel tempo in cui potrebbe inviare un messaggio a tutta la rubrica, perché ne ha bisogno. Perché magari non ha il telefono dietro — cosa che sembra assurda a dirsi, ma può essere.
Quante volte, poi, si riceve una chiamata se non si risponde? Perché è lì, che si sfalda quella errata commistione tra “forma e sostanza dell’urgenza”.
Però, in tutto questo, rischiamo davvero di essere maleducati: perché la semplicità con cui possiamo inviare un messaggio, la velocità, può portare a questo. Quando chiami qualcuno e non può rispondere, alcune volte ti arriva il messaggio preimpostato “scusa, non posso parlare”. Invece scrivere “scusa, ti rispondo dopo” o qualcosa di simile su whatsapp, non è comune.
Però dovremmo sdoganare l’idea che non possiamo essere sempre reperibili o che, certo, magari potrei ascoltare l’audio della mia amica in velocità 2x, ma poi non capirei il tono (come sta, davvero?), e allora aspetto di avere non il tempo, ma il “momento giusto (per me)” per rispondere.
Ad avere l’ansia di dover sempre guardare se qualcuno ci ha scritto e di dover rispondere, ad aver l’abitudine di scorrere la home dei social, a pensare che bisogna essere sempre reperibili, ci perdiamo qualcosa.
Ci perdiamo occasioni o meglio l’occasione di vivere concentrati, senza distrazioni, quello che stiamo facendo, di dedicarci a un momento specifico.
“Ho letto tanto.”
“Ho guardato un film con la mia famiglia, tutti insieme e tutti attenti al film e basta.”
“Ho seguito un webinar su YouTube.”
E possiamo sentirci in qualche modo costretti alla socialità frenetica delle notifiche, del “vedere”, dell’idea di dover essere sociale, come se non fosse una scelta, ma una abitudine da avere.
“Che vorrei un mondo che talvolta sia così, più lento, fatto di interazioni, dolcezza e tranquillità.”
“Mi sono sentita più libera, il tempo mi è sembrato essere più lento, ma in senso positivo.”
“Per un attimo ho sperato che non si riprendesse più, addio social!”
“Finalmente, liberi.”
Possiamo dimenticarci di come è essere connessi solo con i propri pensieri.
“Dopo un primo momento di sbandamento - dovuto certamente alla abitudine di poter/dover consultare internet e social per stanare qualsiasi tipo di informazione, ma anche alla mia imperante mania di controllo e preoccupazione verso le persone a me più vicine (viva gli SMS) - ho pensato quanto fosse bello staccare e starsene con i propri pensieri: quindi unconnect to connect.”
“Ho pensato che oramai siamo tutti dipendenti dalla socialità, chi più chi meno, e questa socialità è diventata estrema. Che quando ci ritroviamo soli e scollegati ci sentiamo spiazzati perché con quella solitudine forse non sappiamo che farci. Non si salva nessuno.”
“Parlare costantemente non significa comunicare”.
— dal film Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004)
La sensazione di libertà post cancellazione dai social l’ho provata personalmente. Sono stata senza Instagram e Facebook per anni, alcuni giorni (forse proprio anche per questo) non ci “entro” neanche. Sono tornata su Instagram come @sensibilandia, non senza titubanze, perché ne conosco le potenzialità positive, perché quel suo algoritmo, che può diventare un veleno invisibile, mi permette di entrare in contatto con persone con la mia stessa sensibilità, per affidare, come qui, le mie parole. Proprio perché tempo fa ho cancellato il mio profilo personale e sono stata anni senza la piattaforma, ne ho maturato una consapevolezza e quindi, pur fallendo alcune volte, cerco sempre di utilizzarlo tenendo a mente i suoi risvolti negativi, quelli oggettivi e quelli che impattano su di me in particolare, e facendo in modo che le mie strade si intersechino con i pensieri di quelle persone che mi arricchiscano, anche culturalmente (e Instagram molto spesso può essere un canale di informazione efficace), che mi diano stimoli positivi (di una positività reale e non tossica, che sia endiadi con le difficoltà che a volte la vita ci da) o mi facciano sentire compresa, con cui quel dialogo silenzioso e anche asincrono proprio anche di quel social abbia un “senso” e non sia effimero e dannoso. È difficile e, se un giorno lo diventasse troppo, tornerò a cancellarmi.
C’è quel detto che — con una brutta metafora — dice “se vai con lo zoppo, impari a zoppicare”: non è un mistero che l’ambiente con cui interagiamo ci influenzi e, anche se i pensieri indotti o i messaggi possono essere subliminali, lo fanno comunque e il problema dei pensieri è che scavano, possono essere carie invisibili che poi chiedono il conto.
Avere la consapevolezza di questo e imparare a limitare chi o cosa fare entrare nel nostro mondo (anche) digitale è importante, perché i social possono essere belli.
Ho letto un articolo sul disastro ambientale in California, dove circa 500 mila litri di petrolio si sono riversati in mare al largo di Los Angeles, occupando una superficie di oltre 30 chilometri quadrati e uccidendo così flora e fauna; in questo pezzo, l’autore paragonava i pesci del mare in cui la macchia di petrolio si allarga sempre più con la “rana bollita” della famosa metafora: essendo il pericolo difficile da percepire subito, inizialmente gli animali non hanno cercato di nuotare verso l’acqua pulita o di mettersi in salvo volando e, così, “si è fatto tardi” e sono morti affogati (se anche voi state pensando alla “Gabbianella e il Gatto”, vi capisco: un “trauma infantile” mai superato).
“Dice che una rana, se messa direttamente nell’acqua calda, salterebbe via immediatamente, salvandosi la vita. Ma se invece se ne stesse in una pentola d’acqua fresca che aumenta di temperatura gradualmente, inizialmente cercherebbe di adattarsi, perdendo energie preziose che le permetterebbero di saltare via e salvarsi. Insomma, la rana finirà bollita. Si tratta di una metafora - spesso associata al linguista Noam Chomsky - che si usa per raccontare come a volte accettiamo passivamente situazioni spiacevoli o dannose senza reagire, perdendo l’occasione per salvarci la vita. Ma è anche un’ottima storia, più nello specifico, per capire cosa accade coi disastri ambientali.”
Non conoscendo gli effetti negativi dei social, come funzionano davvero, rischiamo di arrivare a un momento in cui non respiriamo più.
Ad un momento in cui ci sentiamo “liberi” solo grazie a un internetdown. E c’è da chiedersi perché.
“C’è un momento che arriva prima, in cui la tecnologia supera e sconfigge le debolezze umane. Questo punto che viene superato è la radice della dipendenza, della polarizzazione, della radicalizzazione, della promozione delle offese e della vanità.”
Questa frase è tratta dal documentario di Netflix “The Social Dilemma” (2020) che, insieme all’internetdown di lunedì, ha “suscitato” questa newsletter e la volontà di dialogare su questo tema “sensibile”.
“The Social Dilemma”: tributi in una arena?
Anche prima di vedere questo documentario, sapevo, avendolo anche provato e provandolo talvolta, che i social media hanno diversi e importanti effetti negativi ed è proprio questa consapevolezza, come dicevo prima, che cerco di rendere la mia bussola in queste strade digitali; sapevo anche di come favoriscano le fake news e degli altri risvolti che vengono menzionati, ma questo documentario ha il pregio di mostrarti con chiarezza il filo rosso che collega ogni cosa e, infine, collega anche te, intrappolandoti in una manipolazione, in un gioco che non è davvero controllabile anche da coloro che hanno creato queste piattaforme, e i cui tentacoli vanno ben oltre a quello che si può pensare. Tentacoli che, soprattutto, traggono energia dalle nostre debolezze.
Sembra uno scenario da libro distopico, con l’Intelligenza Artificiale che prende il sopravvento (mi viene in mente il romanzo Illuminae di Amie Kaufman e Jay Kristoff), ma è la nostra realtà, e non (solo) sociale. In questo documentario alcune tra quelle persone che hanno contribuito a creare questi strumenti, a pensare e ingegnare il loro funzionamento, lo riconoscono e sono quelle stesse persone che non fanno avvicinare i propri figli ai social.
Perché non sono davvero degli strumenti: gli strumenti siamo noi.
“Da essere umani, abbiamo quasi perso il controllo su questi sistemi, perché sono loro a controllare le informazioni che vediamo.”
Si è parlato di distopia e, guardando il documentario, non può non colpire la rappresentazione metaforica di questa manipolazione: la persona — che poi è l’utente, che poi è lo snodo informatico per fare soldi — richiama quasi un partecipante agli Hunger Games, mondo immaginario creato nell’omonimo libro (scritto da Suzanne Collins), in balia, nel decidere le sue prossime mosse, di altri. Strateghi che fanno appiccare un incendio perché vogliono che tu vada in una determinata direzione, che studiano le tue mosse e imparano da esse.
L’arena sono i social e gli strateghi sono persone terze che, pagando e finanziando così quella piattaforma, tirano i fili dei nostri collegamenti, come Parche che perseguono, però, un proprio scopo economico.
Tu, noi, siamo i “tributi”. E tributo è il termine giusto perché siamo il prezzo di questo sistema che ingenuamente si potrebbe considerare gratuito.
E, nello stesso tempo, anche la benzina.
Il punto di partenza è rendersi conto di tutto ciò, perché è allora che cambia. Che scegliamo, davvero. O per quanto ci è possibile. E, per ciò che non è possibile, è allora che quindi possiamo chiedere, che possiamo “pretendere” tutela.
Uso twitter, dico spesso che su quel social ho conosciuto persone a me affini e ho sempre ringraziato l’algoritmo per questo: permette di incontrare persone con una sensibilità simile alla nostra, con interessi in comune. Ma cos’altro?
Ricordo, tempo fa, durante una votazione nazionale, di aver pensato che ci sarebbe stato un determinato risultato: molto ingenuamente, ero convinta che le persone che mi comparivano in tl ed esprimevano la loro opinione, dato che io non avevo espresso la mia (e quindi, se vogliamo, innescato nulla), non rappresentassero già quasi un “pacchetto di idee preconfezionato” che mi era stato messo lì in modo “personalizzato”, e che quindi, esprimendo tutte lo stesso voto, c’erano buone possibilità che fosse quello il vincitore. Un ragionamento alquanto banale.
Perché la mia tl è una bolla e, dal punto di vista della sensibilità e non delle informazioni (perché il confronto può diventare più difficile), questo mi piace, lo trovo in un certo senso “protettivo”, ma, da diversi altri punti di vista, rischia di essere una prigione, se non si è consapevoli delle uscite.
Per capire, mi è stato di aiuto un efficace paragone. “Non prendete le informazioni da wikipedia che poi vi sgamo” è una frase che, bene o male, un insegnante, quando assegna una ricerca, dice sempre e che uno studente si è sempre sentito dire. Nel documentario si invita a pensare a questo: se tutti avessimo, ma sarebbe meglio dire "fossimo esposti”, alle stesse informazioni, non ci sarebbero discussioni in cui uno degli interlocutori pensa dell’altro “ma come fa a essere convinto di questo, quando tutte le informazioni dicono il contrario.” Tutti noi lo abbiamo pensato almeno una volta.
Non siamo esposti alle stesse informazioni.
Internet, un luogo infinito, una sorta di borsa di Hermione con “incantesimo di estensione” perpetuo, di incontro di idee e di possibilità di accedere alle più disparate informazioni, può diventare un luogo “chiuso”, una mentalità “chiusa”.
Ho delle amiche che provengono dallo Sri Lanka e mi raccontano del loro Paese e di alcune realtà di arretratezza culturale dove si condivide un bagaglio di informazioni minimo, spesso superate, e dove quelle informazioni sono avvalorate in ogni discorso perché non ci può essere contraddittorio e crescita se non c’è una diversa prospettiva. In questi casi c’è un discorso di povertà e di impossibilità di accedere a una educazione e alla possibilità di informarsi.
Ma anche dove queste possibilità ci sono, i social possono manipolarti e la personalizzazione diventa quasi una limitazione. Una limitazione a quello stesso confronto che la socialità stessa dovrebbe promuovere, a un pluralismo che poi è ciò che rende una democrazia tale, e, dall’altra parte, quando lo scambio di opinioni si riesce comunque ad avere, talvolta, una “limitazione” anche alla capacità di gestire un contraddittorio (ho perso il conto delle interazioni maleducate e violente che ho letto) — magari proprio perché una persona è forte di tutte le informazioni che ha ricavato (ricevuto?) e ha parlato solo con persone che la pensano come lei. E così finisci per sentire la notizia di cani e gatti con le zampe bruciate dalla candeggina perché, durante un periodo terribile e dove si è tutti più fragili come quello di una quarantena per esigenze sanitarie, una fake news ha preso il sopravvento.
Perché il problema, poi, è il contenuto delle notizie che abitano quella “mentalità chiusa”. E le notizie false fanno più soldi; così le fake news hanno una capacità maggiore di raggiungere più persone rispetto a una notizia veritiera: l’investimento richiesto è basso e c’è il massimo guadagno.
“È una disinformazione a scopo di lucro.”
“Abbiamo creato un sistema che predilige le informazioni false […] perché le informazioni false portano più soldi alle aziende rispetto alla verità.”
E, nello stesso tempo, è difficile che ci sia verità, se non si è più in grado di distinguere ciò che è vero.
“Se non siamo d’accordo su ciò che è vero, non possiamo risolvere nessuno dei nostri problemi.”
Non può sembrare sicuramente solo un problema astratto e il documentario, nell’ultima parte, tira quei fili rossi e ci mostra i vari risultati a cui abbiamo assistito e stiamo assistendo.
Bisogna pensare a cosa può fare una “mentalità chiusa” in tutti gli ambiti e che può essere alimentata dal sistema: se si pensa al messaggio “chiuso” che dice “la terra è rotonda”, non ci si allarma e si può anche prendere alla leggera chi sostiene che la terra sia piatta, ma si pensi a tutti quei contesti che, portati all’estremo, fanno danni, a quegli ambiti dove, collegando sempre più una certa rete di persone, i rischi legati alla loro attività aumentano.
I messaggi, subliminali o meno, sui social non sono solo carie invisibili, perché generano pensieri che portano ad azioni, a nostri comportamenti. È su questo che si basa il sistema, un sistema che diventa sempre più bravo. E finché mi fa vedere dei prodotti sostenibili per la lavatrice, perché una volta ho salvato un post su questo tema, e li fa vedere anche alle persone vicine a me, uno potrebbe anche dire “poco male: sono consapevole di questa cosa e comunque mi informerò di più” — e questo è un punto di partenza importante, ma per altri aspetti è estremamente difficile. Si può essere consapevoli, ad esempio, che Instagram promuove degli standard di bellezza che non rispecchiano la realtà, ma alcune volte essere comunque vittime del sistema, perché allenare i pensieri, quando sei indotto a pensare diversamente, quando questa consapevolezza non è allenata socialmente, è difficile e rischi di essere sempre inglobato da quella bolla di idee dalla quale vuoi uscire.
E mi chiedo di quante cose, invece, non sono consapevole.
Un altro problema è quello delle informazioni “scritte male”; recentemente, mi è capitato di leggere un articolo circa la sentenza della Cassazione che ha rigettato un ricorso di un PM che aveva contestato il reato di atti osceni a un uomo che si era masturbato in treno davanti a una donna; dai titoli e da certi articoli, sembrava che fossimo in balia del “caos” e in mano a dei giudici a cui si potrebbero dare diversi appellativi: la realtà è che il PM ha contestato il reato di atti osceni di cui al comma 2 dell’art 527 c.p. e, quindi, in un luogo “abitualmente frequentato dai minori”, perché c’è stata la depenalizzazione degli atti osceni al di fuori di questi contesti (sicché c’è solo la sanzione amministrativa) — se è un luogo abitualmente frequentato da minori, allora è reato, diversamente no — e, considerando che in una precedente sentenza, la Corte ha affermato che “un vagone ferroviario in movimento per l’ordinario servizio non può essere ritenuto un luogo abitualmente frequentato da minori”, i giudici hanno escluso che il “dato luogo in cui il ricorrente ha tenuto la condotta comporti la integrazione del reato”, rigettando così il ricorso. È sicuramente opinabile che un vagone ferroviario non possa essere ritenuto un luogo abitualmente frequentato da minorenni, ma la questione vera è perché l’adulto “vittima” di atti osceni non riceva tutela in questo senso dal legislatore e la riceva soltanto un minore (e neanche, seguendo idealmente alla lettera l’espressione che richiede la abitualità, in tutte le circostanze).
Nel libro “Dovremmo essere tutti femministi” di Chimamanda Ngozi Adichie, viene detto “la cultura siamo noi”; ma se in questo “noi” fosse in realtà rappresentato un insieme diverso? Dove non siamo noi, che interagiamo, che socializziamo, spontaneamente, ma dove ci sono strateghi, sistemi, che perseguono il loro scopo e dove noi siamo gli strumenti e poi, come strumenti, determiniamo la stessa cultura in cui viviamo, la stessa società, con i nostri comportamenti e le nostre scelte.
Posso anche non crucciarmi del fatto che Twitter sappia come mi senta, controllando quali parole uso più frequentemente, o cosa mangi — qui c’è anche un discorso di uso consapevole di internet in generale, di sapere “che non dimentica” —, ma che siano sfruttate, magari, mie fragilità, è tremendo, perché non c’è alcuna bussola etica al riguardo: (facendo un esempio anche banale) se in una giornata in cui mi sento particolarmente demotivata, vedo dei video su “come essere produttivi”, poi continueranno a essermi riproposti e senza distinzione tra una produttività sana e una tossica e così via.
“Non è che la tecnologia sia la minaccia esistenziale, ma è la capacità della tecnologia di tirar fuori il peggio dalla società ed è il peggio della società ad essere la minaccia esistenziale. Se la tecnologia genera caos di massa, offese, inciviltà, mancanza di fiducia nelle persone, solitudine, isolamento, più polarizzazione, più manipolazione delle elezioni, più populismo, più distrazione e incapacità di concentrarsi sui problemi reali, questa è la società. E ora la società è incapace di risanare se stessa e sta precipitando nel caos.”
La parte finale del documentario da qualche speranza, ma la frase che diceva sempre la mia professoressa di Storia alle medie — “è l’economia che muove la storia”— in questo caso, come nel caso del cambiamento climatico, mi fa temere per quel che sarà.
“Si tratta di scelte fatte da uomini. Gli uomini possono cambiare questa tecnologia. La domanda ora è se siamo disposti ad ammettere che questi risultati negativi sono il prodotto diretto del nostro lavoro”.
Nel finale, vengono dati dei consigli per contrastare un pò il sistema: disattivare le notifiche (di modo che sei tu che decidi di utilizzare lo strumento e non viceversa); non accettare su YouTube i video consigliati (la scelta deve essere solo tua e non indotta); recuperare più e diverse informazioni quando ci si rapporta a una notizia; non tenere il cellulare nella stanza da letto (e, aggiungerei, come ho letto da altre parti, prima di dormire e dopo essersi svegliati non utilizzarlo per almeno un’ora); impostare un tempo massimo (io lo trovo comodo anche come avviso). Un altra cosa che posso consigliarvi è di non utilizzare la home di Instagram; quello che funziona per me, non è detto che funzioni per un’ altra persona, quindi sicuramente porsi delle domande e agire di conseguenza, andando anche a tentativi, è un buon primo passo.
Questo è quello che possiamo fare noi; ma cosa può essere fatto?
“Non ci sono ragioni fiscali per queste aziende di cambiare, ed è per questo che ci vuole una regolamentazione.”
“Dobbiamo sempre rimetterci alle persone più ricche e potenti? O arriverà un momento in cui diremo: sapete, ci sono momenti in cui c’è un interesse nazionale, in cui gli interessi delle persone, degli utenti, è più importante di qualcuno che è già miliardario.”
È anche interessante come venga spiegato come, ovviamente, a essere più facile è la via amica del sistema (come nel caso dei consigli personalizzati): utilizzare i social o informarsi, tenendo conto di queste trappole, è sicuramente più complicato e meno “intuitivo” rispetto a non farlo.
Ma il costo di non farlo, siamo noi.
“Lasciare un mondo peggiore alle generazioni future […]. È una logica a breve termine basata sulla religione del profitto a ogni costo, come se per magia ogni azienda che agisse nel suo interesse egoistico producesse il risultato migliore. Vediamo gli effetti sull’ambiente da tanto tempo. La cosa spaventosa e che, si spera, sia l’ultima goccia che ci faccia svegliare come civiltà, è capire che si tratta di una teoria fallace è che ora noi siamo l’albero, la balena. La nostra attenzione può essere sfruttata. Siamo più redditizi per una azienda se passiamo la nostra vita a fissare uno schermo che se viviamo la nostra vita in modo soddisfacente.”
“Un ciuccio digitale che sta atrofizzando la nostra capacità di affrontare le situazioni”.
Anche stare con i nostri stessi pensieri, durante un internetdown.
Come per la scorsa newsletter sul “tema sensibile mensile” — di (in)consapevolezza (in)sostenibile, grazie a chiunque sia arrivato sino a qui e chiedo scusa se dovessero esserci errori o inesattezze sulla tematica (anche se sono più riflessioni personali, questa volta): l’idea del “tema sensibile” mensile, anche di questa “lettera” quindi, non è di “farla semplice”, ma, senza pretese, di mettere in circolo spunti di interesse, punti di vista, riflessioni.
“Consiglio della settimana”: il documentario da cui è partita questa riflessione, “The social dilemma” (2020) — che trovate su Netflix e da cui sono tratte le citazioni —, consigliarlo e magari parlarne,
“Parlando di queste cose ed esprimendo la tua opinione, in certi casi attraverso queste stesse tecnologie, possiamo iniziare a invertire la rotta e a cambiare.”
e chiedersi cosa dei social ci faccia male, agendo quindi, per tentativi, per uscire da queste trappole.
“Novità” dal tema sensibile dalla scorsa settimana — sostenibilità ambientale: questo articolo di Internazionale sull’“ansia ecologica” e queste due iniziative di Rifò Lab per una economia circolare e collaborativa.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un pò in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui”.
Un abbraccio, grazie e buona domenica.