È successo che un giorno di gennaio ho pianto un sacco e quello stesso giorno ho preso dei biglietti del treno per andare a Bologna, da sola.
È successo che la scorsa settimana mi hanno detto “se non fa il lutto del passato, sta già facendo il lutto del futuro”.
Succede ogni volta che mi si spezza il cuore, quando cerco di dire “non possiamo” alla me 23enne.
Succederà che mi perdonerà?
Faccio un video a un uomo che dipinge. Si gira, mi guarda e sorride.
“Dipingi anche tu?” Mi chiede. Gli spiego che no, che ogni tanto disegno, che mi piacerebbe provare.
“Fallo adesso, non aspettare.” Mi suggerisce di non usare i colori ad olio, che ci mettono tanto ad asciugare.
“Inizia. Che poi sono soddisfazioni. Io faccio un altro mestiere, ma dipingo sempre.”
Gli dico quella frase sul lutto che mi hanno detto, che bisogna farlo del passato che non è stato o si fa già il lutto di quello che potrebbe essere, persi nel rimpianto.
“Quanti hanno hai?” Mi guarda.
“29”
“Sei appena nata. Sei appena nata.” Lo dice quasi sorpreso, come se un pensiero simile in una 29enne non dovrebbe esserci.
Sorrido e qualcosa di caldo scende dentro di me.
“Sei appena nata” mi ripete “ma devi iniziare.”
Lo ringrazio, anche se non saprà mai, quello sconosciuto, quanto mi ha fatto bene. Quel monito che però è anche speranza. E una narrazione diversa, lontano dal “entro i 30 anni devi aver […]”.
Con Bologna, quel giorno, ho “iniziato”, forse.
Vivere quello che succede. Senza perdersi (o quasi) in nostalgie del passato e ansie future.
Un’esperienza da sola, non da 23enne, perché non lo sono più. Ma dalla me di “ora”.
Ho camminato sino al Santuario, steso un telo sull’erba e ascoltato il vento e la vita che mi circondava. Ho cercato di non pensare, o pensare “in modo diverso”. Di lasciare che non fosse la testa a comandare.
“Mi sento un po’ triste, è normale?” Ho scritto a una amica.
“Sì, è normale.”
È normale.
Continuare a provarci.
Siete appena nati, ma iniziate.
Un bambino a inizio mese mi ha chiesto se potessi guardarlo, “mentre andava sull’altalena”: guardava nella mia direzione, mentre la mamma lo spingeva, “su e giù”, come a controllare che non lo stessi guardando, ma “vedendo”. Voleva essere visto. E, in fondo, non è quello che vogliamo tutti? Essere visti, semplicemente, per chi siamo, con tutte le nostre montagne russe che ci fanno andare “su e giù”. Essere visti quando siamo “su” e anche quando siamo in un “giù” che ci sembra sia il fondo di ogni cosa.
Quel giorno in un “laggiù” ho abbracciato, pianto e riso, e spero “visto”, con tutto l’affetto possibile e mi sono vista tendere una mano e “vista” in quel gesto; ho comprato delle piante, perché in un certo senso mi sento “pronta” a prendermene cura e perché, forse, posso provare a fare lo stesso con me stessa; ho sentito dolore alle gambe e provato gratitudine, perché stavo andando in bici, perché potevo andare in bici: l’acqua dalle fontane che ogni tanto mi arrivava in viso, il sole pallido e tutto il brusio di vita di un sabato al parco; ho ascoltato il vento e, adesso che scrivo, mi rendo conto che non gli ho chiesto di portarmi via.
“Come stai andando in alto”: muoveva le gambe, sforzandosi. Probabilmente avrebbe voluto andare “sempre più su”. Ed eppure, in quel momento, in quella sua infanzia e semplicità disarmante, era più in alto di quanto potesse immaginare.
Ma se lo potesse immaginare, non sarebbe la stessa cosa. E forse è questo il segreto da conservare.
LA SOTTILE ARTE DI FARE QUELLO CHE C***O TI PARE — Mark Manson
Cosa ho letto —
I primi capitoli di questa lettura mi hanno fatto "storcere un po' il naso": "mi sembra un po' pressapochista" era quello che dicevo, quando mi chiedevano cosa ne pensassi.
Più avanti, forse anche una volta entrata nello stile dell'autore (che personalmente non ho amato*), mi sono parzialmente ricreduta.
"Parzialmente" perché non è un libro che va davvero a fondo nelle riflessioni che propone, ma nello stesso tempo perché non è quello che si propone di fare: non è quello il suo obiettivo.
Ecco perché, secondo me, l'impressione che si ha di questa lettura dipende moltissimo dal grado di consapevolezza che ognuno di noi ha e da quanto sia sviluppato il suo senso autocritico: se certi concetti e domande scomode si è abituati a maneggiarli, leggere questo libro, pur non trovandosi sempre d'accordo con l'autore, è una sorta di "ripasso", di "concentrazione" di alcuni spunti di riflessione che sono sicuramente utili; diversamente, alcuni ragionamenti possono sembrare un po' "campati per aria" e, in un certo senso, dare fastidio, come se fossero delle "accuse".
Ma, in fin dei conti, forse è questo il pregio di questa lettura e che può essere sfruttato: essere uno spunto di riflessione e di "discussione", con se stessi e con l'autore.
Non ci si deve fermare all'ovvietà di dire "sì grazie, questo lo so anche io", ma fermarsi a riflettere .
L'aspetto negativo che si cela dietro quel "parzialmente" è che è pur sempre un libro che vorrebbe svelare grandi "verità sul vivere", ma che è, per forza di cose, impregnato del punto di vista e della condizione dell'autore: di ciò che è stata la sua vita, di quello che ha vissuto e ha potuto. Questo aspetto, imprescindibile, va tenuto a mente o il "pressapochismo" prende il sopravvento.
Queste, alcune "sottolineature" che, a mio parere, possono essere degli ottimi spunti di riflessione.
“Una domanda più interessante, una domanda che la maggior parte della gente non prende mai in considerazione, è: quale dolore vuoi nella tua vita? Per cosa sei disposto a lottare?. Perché questo sembra determinare in modo molto più incisivo quello che diventeranno le nostre vite.”
“Molti esitano ad assumersi la responsabilità dei loro problemi perché credono che esserne responsabili significa anche esserne colpevoli. […] Ma ci sono anche problemi di cui non abbiamo colpa, e di cui siamo comunque responsabili.”
“Perché una relazione sia sana, entrambe le persone devono essere disposte e in grado di sentirsi dire di no. Senza quella negazione, senza quel rifiuto occasionale, i limiti crollano e i problemi e i valori di uno finiscono per dominare quelli dell’altro. […] Non senti di essere amato finché non sei sicuro che l’amore espresso nei tuoi confronti sia privo di condizioni speciali o conseguenze.”
*Sullo stile: come dicevo, non l'ho amato in quanto sono convinta che per attirare e intrattenere il lettore non sia necessario ostentare un determinato linguaggio o "voler essere" irritanti, ma tant'è.
Cosa sto leggendo ora — “La luce che è in noi”, di Michelle Obama (ed. Garzanti)
Buona settimana,
e un abbraccio.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).