Seduta in ambulanza, mia mamma, per la prima volta nella mia vita, io figlia, la vedo così piccola.
Il giaccone addosso invernale sul pigiama nuovo, preso per “l’occasione”: dei pantaloni a scacchi, sui toni del rosa con le righine blu; la maglia ha disegnato sopra una luna e una scritta di cui non riesco a ricordare le parole. Un pigiama da bambina.
“Non sono mai salita su una ambulanza”, dice. E ne ha fatti, di interventi.
Una mamma rimane sempre una mamma, ma c’è un momento in cui, da figlia, quel ruolo si ricopre di una patina quasi, che sai di non dover scalfire, per quel che è in tuo potere: una membrana a cui non vuoi fare avvicinare alcune realtà, anche se quelle, istintivamente, vorrebbero ruzzolare giù per il pendio della maternità e trovarvi riparo.
La vedo così piccola e so che vorrebbe dire “non voglio andare”, ma non lo dice. Perché rimane sempre una mamma davanti a sua figlia e i figli nascono con quella patina addosso, cellule epiteliali di una madre che sarà sempre tale.
Più tardi, in attesa nella sua stanza, sento una fitta di gratitudine per poter vedere mia madre invecchiare, una gratitudine immensa, pesante, forte e inarrestabile come lava.
Una lava che scende giù dal pendio della maternità verso di me, all’incontrario.
Così il pendio si fa pendolo e sì, questa cosa qui, quando te ne rendi conto, ti incrina qualcosa dentro, ma è amore che puoi vivere.
Pensavo fosse un capello, così vi ho posato sopra la mano, per spostarlo. Ma non era un capello. E non si è spostato. Quel “filo” sulla mia fronte era una ruga. È, una ruga.
Così ho scoperto la mia “prima ruga.”
Per qualche giorno mi sono auto convinta che fosse dovuta a mancanza di idratazione — e giù a mettere strati di crema; poi, ho dovuto accettare la verità. E ho iniziato con il retinolo.
Si sa, il percorso di accettazione è lungo.
Una sera mi sono chiesta cosa celasse questo mio tentativo di fare sparire qualcosa della cui esistenza mi preoccupo solo io — cosa mi preoccupa davvero?
Il tempo che passa. Ma, questa, è una risposta quasi scontata, no? L’invecchiare e quello che rappresenta etc.
Così, ci ho riflettuto un po’ di più e ho capito, ho capito cosa di questa ruga mi infastidisce: non ha diritto di essere lì, perché il tempo che ci ha messo per formarsi io non l’ho neanche visto — se non l’ho visto io, perché deve considerarlo lei?
Mi sono resa conto che, quando nella mia vita è cambiato tutto, la mia mente, emotiva e non, ha premuto “il pausa della vita” che stavo vivendo, ma il mio corpo no; e poi è arrivato un giorno, imprecisato, in cui nelle sue “ferie”, la mente ha detto “ma sai che c’è? Ora possiamo riprendere a pezzi quel film lì che abbiamo messo in pausa anni fa, sì insomma, la tua vita” e ha premuto “play”, convintissima che tutto avrebbe ripreso a funzionare proprio da quel punto di rottura.
Quello che è successo è abbastanza scontato: è cambiata la sceneggiatura, sono cambiati gli attori, è cambiato persino il genere, di quel film.
Forse la mia mente ha fatto la mia stessa espressione allora, di quando mi sono resa conto che il capello sulla mia fronte non si spostava perché non era un capello.
“Sentirsi danneggiata”, questa è la risposta più vera, forse.
Quella ruga simboleggia non il tempo, ma la crepa; è lo sbaffo di inchiostro di una storia che mi ha riscritto senza che me ne rendessi conto, senza che l’avessi scelto.
Quella ruga sono io che chiedo l’età alle persone e la mia maledetta tendenza a paragonarmici, è il neonato che dorme nel suo passeggino e quello che mi suscita, è in ogni “alla tua età”; quella ruga sono le cene con gli amici dove non posso capire i loro discorsi e il sapere che loro penseranno, invece, di capire i miei perché “ci sono passati”, ma tu sai che non è la stessa cosa; quella ruga sono le rughe nelle persone che ami, le domande che ti poni all’improvviso, come “se mai mi dovessi sposare, si ricorderà?”. È nella frase che dici a due tue amiche, una frase senza senso da bambina, una sera al buio mentre loro fumano — loro che sono più giovani anche se tu le senti più grandi —, la frase “mi merito di avere ancora 23 anni”, che poi anche a scriverla ti rendi conto che è una stronzata (lasciatemelo dire), perché sai quanto sei fortunata, e però dentro di te c’è ancora quella 23enne che, dall’oggi al domani, si è vista togliere il ruolo principale e si è vista sostituita, per giunta da una “più vecchia e meno brava” — perché è questo il suo punto di vista — e, insomma, come darle torto se non si da pace?
Si sa, il percorso di accettazione è lungo.
In quella ruga c’è il pendio della maternità che si fa pendolo ed è vero che è un regalo, che va oltre lo spazio e il tempo, perché è amore che puoi vivere, mai scontato e sempre prezioso, ma, quanto te ne rendi conto, qualcosa ti si incrina dentro — c’è una crepa, una ruga.
I tentativi della mia mente di “idratare” quella crepa sono i più vari, ma questa è un’altra storia.
Un po’ di libri come (quasi) sempre
I libri che mi stanno accompagnando in questa fine 2024:
“I disturbi cerebrali. La lotta contro le malattie neurodegenerative”,
“Design your life. Come fare della tua vita un progetto meraviglioso” di Bill Burnett e Dave Evan (ed. Rizzoli),
“L’idiota” di Elif Batuman, tradotto in italiano da Martina Testa (ed. Einaudi).
Nell’eventualità che durante la cena di Natale qualche parente, parlando degli ultimi fatti di cronaca nera, domandasse retoricamente ad alta voce “ma come fanno gli avvocati penalisti a fare quello che fanno?” — scuotendo la testa mentre con la forchetta infilza l’ennesima tartina che avresti voluto mangiare tu —, un’ottima risposta giuridica sotto forma di romanzo è “Testimone inconsapevole” di Gianrico Carofiglio (ed. Sellerio).
Una pagina del volume “La plasticità celebrale” di Juan Vicente Sánchez Andrés che mi ha commosso perché è un po’ una storia d’amore, perché è, alla fine, la storia di tutti noi: di quel bisogno di un ambiente che ci mantenga vivi, per non morire.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
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