La vita dell'erbaccia e le "vite che non sono la mia".
Del nostro dolore e di quello degli altri.
“[…] pegg. erbàccia, erba inutile, nociva al seminato: un campo pieno d’erbacce; strappare, sradicare le erbacce (anche con valore collettivo: un orto abbandonato, pieno di erbaccia).”
“Non esiste un vero e proprio elenco di piante infestanti in quanto la definizione di malerba è puramente soggettiva: alcune piante utili o coltivate possono divenire malerbe nel momento in cui cessa la loro funzione di utilità per l’uomo.”
La definizione di “erbaccia” mi è tristemente affasciante; da bambina pensavo che fosse una pianta che danneggiasse le altre — come se scontasse, in un gioco di contrappasso, una qualche maledizione di un dio greco per aver peccato di ὕβϱις — e invece non è dannosa in sé, ma siamo noi che, a seconda di quello che riteniamo “utile” o meno, relazionandola a ciò, la consideriamo tale.
È un concetto di relazione.
Lei vuole semplicemente vivere, prendersi lo spazio che ha bisogno, ma, danneggiando i nostri giardini, i nostri “piani verdi”, perché quello spazio non lo trova mai, la consideriamo “erba cattiva”.
Anche il dolore, istintivamente, è qualcosa che vorremmo estirpare.
Lo consideriamo una erbaccia. Perché prende lo spazio delle nostre energie mentali, delle nostre energie fisiche e sociali. Avviluppa le sue radici dove può. Vorace.
Spesso pensiamo che il silenzio possa affamare il dolore, sotterrarlo con un peso opaco. Ricoprire l’erbaccia sino a che non soffochi. In realtà, però, il silenzio lo alimenta, perché non è mai involucro davvero vuoto: il dolore che preme, pone sempre delle domande alle quali inevitabilmente cerchiamo di dare una risposta, come per “zittirlo”, per sopravvivenza, per l’istinto di mettersi in ordine e riavere il controllo: se non riusciamo a trovare una lingua con cui tradurlo, se non troviamo gli strumenti per farlo, quel terreno che vi gettiamo sopra, credendolo silenzio, in realtà si riempie di quelle convinzioni di chi quel dolore lo ha causato o di risposte sbagliate — perché come si fa a dare una “risposta” corretta a qualcosa che non si è ancora in grado di capire?.
Con quel concime, il dolore si fa quel qualcosa di cui abbiamo paura. Le radici crescono e di queste facciamo fondamenta di tante altre cose: ci costruiamo infinite “case sull’albero” dove viviamo, dove ci rifugiamo, dove pensiamo di poter capire e vedere tutto.
Estirpare una piantina che è così radicata non è facile.
E una cosa a cui non si pensa mai è a tutta la terra che si smuove.
Sarebbe bello poter intervenire in modo chirurgico, ma non si può mai: bisogna immergere le mani, sino ai gomiti, sino al cuore, il più delle volte senza neanche sapere cosa si sta cercando, e, senza strappi che potrebbero lasciarne “semi”, dissotterrare l’erbaccia.
E mentre sei lì, con le unghie sporche di terra, trovi di tutto: cose che pensavi di aver sotterrato per sempre, altre che avevi dimenticato, ma sono ancora sassolini affilati in grado di ferirti la pelle; altre ancora ti chiedi perché siano lì, come ci siano arrivate. Da principiante, sposti la terra, ma non ti rendi conto che la stai buttando addosso ad altro e allora, sì, devi occuparti anche di quello.
E vogliamo parlare del buco enorme di quanto hai disotterrato l’erbaccia? Quella consapevolezza può farsi buco nero: bisogna tenerla d’occhio, dare acqua ai semi che ci hai piantato inconsapevolmente, mentre lavoravi a togliere e nel mentre hai seminato, ed eventualmente mettere dei tutori alle piantine ancora fragili. Un altro lavoro.
Poi c’è l’erbaccia.
E l’erbaccia scopri che, mettendola da un’altra parte, non è più infestante: c’è, certo, e non si può ignorare — magari qualche volta avrà bisogno di una potata, ma nel suo posto, quello che cercava in modo spasmodico e che non gli davamo, ascoltandola, può essere solo una pianta.
È faticoso.
Ogni giardinaggio lo è.
Mia nonna si è sempre occupata, sino a che ha potuto, del giardino. Con il suo cappello per ripararsi dal sole, la testa china e le ginocchia appoggiate a un cuscino apposito, lavorava ore.
Quando vi passeggiava semplicemente, potevi vedere gli occhi cercare determinati punti, valutarne altri, abbracciarlo tutto in una comprensione reciproca.
Conosceva il giardino, i suoi bisogni, i suoi ritmi, e così se ne occupava e certo, c’era sempre da occuparsene, ma, nonostante questo, non c’era giorno in cui lei non volesse passeggiarvi.
C’era un rispetto reciproco: l’idea di un giardino che faceva i conti con le stagioni e la natura del giardino stesso.
Io non so da che parte iniziare. Già solo quando la mia piantina grassa ha avuto la muffa, il mio (non) pollice verde è stato messo a dura prova.
È come se non conoscessi l’alfabeto di tutte quelle piante e così, quando guardo il giardino, quando ci cammino, mi sembra solo abbandonato. Troppo enorme e incomprensibile perché io possa farci qualcosa e così, in questo senso, qualcosa che temo.
Probabilmente mia nonna, sapendo tradurlo, avrebbe saputo dirmi cosa mi sta dicendo. Non ci avrebbe visto l’abbandono, ma altro.
Altro che, forse, non mi avrebbe fatto paura.
Lei l’ha imparato con il tempo, avendone cura. Lavorandoci. Sporcandosi le mani con la terra.
Imparando una nuova lingua.
Anche il mostro che noi identifichiamo come dolore è in realtà un dolore non ascoltato, che non ha trovato un alfabeto condiviso.
Anche di quel dolore dobbiamo “avere cura”.
delle volte ho così chiaro il mio dolore
che mi sembra di poterlo quasi maneggiare,
come fosse un solido,
studiarne i contorni, le nicchie,
grattarci su le unghie per vedere se frana;
e allora penso che potrei lanciarlo,
sasso in un lago,
via,
ma ogni volta che ci provo,
sono io a increspare
— naufragio amaro.
“Cose belle” — libri e vita: da domani, inizieranno gli sconti Adelphi; che dire, se avete un “titolo nel cassetto” che volete leggere da tanto, approfittatene; se, invece, siete in cerca di un consiglio, chi mi conosce sa che il primo Adelphi che cito sempre è “Vite che non sono la mia” di Emmanuel Carrère (trad. di Federica Di Lella, Maria Laura Vanorio).
Amo troppo questo libro per dedicargli solo poche righe; quindi, per chi avesse piacere, vi lascio qui la recensione/riflessione che scrissi, una volta finito.
“Consiglio della settimana”:
VITE CHE NON SONO LA MIA — Emmanuel Carrère
(Edizione Adelphi, traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio)
Difficile, capire da dove iniziare.
Inizierò dal titolo che, per la prima volta da lettrice, trovo non azzeccato, ma di più; come se si fosse scritto da solo, come se fosse il risultato di un qualche calcolo matematico, un qualcosa di inevitabile e che non poteva essere diverso. Perché credo che ciò che ha permesso a questa storia di arrivarmi sin dentro alle ossa in un modo del tutto nuovo è stato il fatto che l’autore racconta di vite “che non sono la sua” e ciò senza l’intento di mostrarci in che modo queste l’hanno cambiato, ma ponendosi a margine, lasciando qualche volta una sua opinione, ma senza mai arrivando ad oscurare il resto, o a cambiarne l'interpretazione, con una soggettività che, quando si tratta di raccontare del dolore in particolare, un po' "toglie alla realtà"; in pratica “ascoltando” e “lasciandoci ascoltare” e non “inquinando” - anche se è un termine bruttissimo - la storia e rischiando così di togliere il carattere della immediatezza. Leggendo, quindi, se non si hanno avuto esperienze combacianti perché son certa che, in tal caso, si abbia un’altra esperienza di lettura, si ha un po’ l’impressione di essere al posto dell’autore o accanto a lui, con un taccuino in mano, ad ascoltare: e così tu finisci per provare tantissime emozioni - sento un vuoto, adesso che scrivo, e ho appena finito il libro -, ma per quegli spigoli della vita che non hai provato in prima persona, puoi dire, come ad un amico, “so che non posso capire”, anche se questo non rende meno sincera la tua partecipazione al suo dolore. Ed ecco che c’è la magia della verità, come una luce che rischiara ogni cosa e che è ben diversa dal raccontare il dolore proprio, direi quasi “indugiando troppo in esso o non facendolo affatto”, anche dal punto di vista di esercizio di stile/ lessicale. Ed ecco che piangi, leggendo. Credo che questo si rispecchi anche nello stile dell’autore che a me è sembrato sia equilibrato che profondo, ma di una profondità che non è data da un esercizio di stile, appunto, che scava, scava fino a farti provare le cose - e tu annaspi, magari -, ma dalla limpida verità che raffigura, dal portare alla luce la vita come “è stata” - come la praticità davanti al lutto e, nello stesso tempo, la praticità davanti alla vita “dopo” - e dunque la vita come è, nella sua fragilità e, alcune volte, “assurdità” agli occhi degli altri. Non so se questo sia lo stile dell’autore, perché è il primo suo libro che leggo, ma l’ho amato.
Ho iniziato il libro e mi è piaciuto sin da subito; ho avuto i brividi leggendo dello Sri Lanka, gli stessi che si hanno quando davanti al telegiornale si apprendono le notizie di eventi drammatici di larga scala, le stesse sensazioni. Poi è stato, avrei detto allora, come passare a un altro libro (il che ha fatto sì che mi prendessi una pausa), ma non per lo stile, per la storia trattata: si passa da una tragedia collettiva a una personale e a mano, a mano, si realizza un climax perché la patina del “non potrebbe accadermi” si assottiglia sempre di più, pur non esaurendosi mai per la tipica inconsapevolezza umana che alziamo come muro per proteggerci. Collegavo le due vicende solo attraverso il tema del “dolore”, ma in realtà il filo rosso che rende più che mai unito il libro è, proprio, quella patina che definirei non come il “dolore”, ma la partecipazione a un dolore che non ci investe direttamente. Trovo di sollievo chi è capace di dire “non posso capire”, chi è capace di ammetterlo e esternarlo, anche perché penso che una delle porte per la vera empatia sia proprio questa, sedersi e fidarsi di ciò che ci viene raccontato, senza avere la presunzione di pensare che “no, non è così” e così arrivare a comprenderlo, e non solo capirlo, meglio. E l’empatia è, secondo me, imprescindibile da un certo tipo di lettura, soprattutto per farla davvero tua.
La storia di Juliette, in particolare, mi ha così travolta o forse sarebbe più corretto dire che mi ha travolta la sua vita attraverso le vite delle persone che ha avuto accanto e l’hanno avuta accanto - di un altro libro, di tutt'altro genere, è la frase che dice che le vite delle persone si misurano anche nelle vite di chi ha incontrato: nulla di più vero.
Sicuramente, sulla mia lettura hanno influito alcune vicende personali e, da altri punti di vista, il fatto che studio giurisprudenza, ma sarebbe andata così anche diversamente perché è inevitabile: se ti interessa il punto di vista giuridico, sicuramente sei stimolato maggiormente in alcune parti e non puoi che essere affascinato e, per i temi trattati, puoi ritrovarti o meno, ma il punto principale è che questa cosa sbiadisce, va in secondo piano, tu “partecipi” senza essere quella persona e, nello stesso tempo, senza lasciarti sprofondare in te stessa e così arrivando a una comprensione più vicina di chi cerca di “mettere il suo” per capire meglio, anche quando non può.
Non sono vite inventate, ma reali e mi viene molto difficile parlarne e dire, ad esempio, che vorrei conoscere Étienne, fargli tantissime domande, o chiedere a Patrice come stia. Mi sembra di non essere rispettosa. Dirò, però, che ho visto descritte magistralmente, o almeno così a me sono arrivate, due forme di amore bellissime e rare: quella con Patrice, di complementarietà, di chi si trova, di chi è destinato a trovarsi. E quella con Étienne, a mio parere ancora più rara, di affinità, di intesa intellettuale e di esperienza di vita, profonda e nello stesso tempo che non necessita di una quotidianità, che ti permette di essere te stesso in un modo libero che può essere diverso da quello che si scopre in un rapporto di amore come il primo.
Si assiste a un racconto, anche perché si passa dalla dolcezza all’ilarità nel raccontare alcuni episodi di carattere giuridico proprio come se si stesse parlando con qualcuno e il suo registro cambiasse a seconda dell’argomento. Penso che traspaia anche il rispetto che l’autore prova verso la vita di chi racconta.
Il libro è un cerchio che si chiude: chiudi tanti piccoli cerchi mentre lo leggi - che non sono altro che minuscole finestre nella vita delle persone - e poi ritorni alle “vite di partenza”, in particolare a quella dell'autore, proprio perché, direi, l’autore sa che le vite che ha raccontato non sono la sua e quindi sa che scorreranno, indipendentemente da lui.
Si potrebbe parlare della riflessione sul tema della malattia e di altri argomenti, ma quello è un “più” molto soggettivo; ne esco arricchita da questo incontro, non so ancora in che modo, ma è così che sento; ne esco arricchita dalla conoscenza di queste persone, anche se limitata al mezzo di un libro, ma sappiamo tutti quanto questo insieme di carta e inchiostro possa essere potente.
Mentre si dicono queste cose le lacrime cominciano a scorrere sulle guance di entrambi. Scorrono senza vergogna, senza ritegno, e loro provano persino un briciolo di gioia nel versarle. Perché poter dire “È orribile”, “Non è giusto”, “Non ne posso più”, senza temere che l’interlocutore si senta in colpa, poter dire con certezza — sono parole di Étienne — che l’altro capisca quello che abbiamo detto, esattamente come noi lo abbiamo detto, senza niente di più, senza proiettarci niente di suo, è una gioia immensa, un sollievo immenso.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Buon fine settimana
e buon giardinaggio,
un abbraccio.