Non "lasciare passare" "come se niente fosse".
Rubrica "A due tastiere" e il "tema sensibile" del mese di Novembre.
Ebbene sì, questa volta di domenica sera e anche in ritardo e, se vogliamo dirla tutta, dopo aver “saltato” una settimana.
“Lasciare” è stato il filo rosso di questo mese (“Lasciare in sospeso”, “Lasciarsi alle spalle”) e, inconsapevolmente, ho dovuto anche lasciare andare i miei piani, la mia organizzazione per questa newsletter, e ascoltarmi, ascoltare, e così accettare che non può tutto funzionare come un orologio e che va bene così, che alcune volte non è un problema, che io non devo farne un problema.
Ma come ci siamo lasciati, così ci possiamo ritrovare e lo facciamo qui, questa sera. E, ora che ci penso, che sia sera mi fa sorridere perché la notte sarà la protagonista della prima parte di questo nostro incontro.
Un incontro con voi e “a due tastiere”, questa volta.
Perché spesso si chiede “È meglio il libro o il film?” e a questa domanda non ho risposto con una mia amica, e “penna”, che leggo sempre con il cuore, Arcangela (che trovate su ig come @cardamomus_): non possiamo infatti dirvi se è meglio il libro o il film, perché lei ha letto il libro e io ho visto il film e poi ci siamo affidate alle parole, che entrambe amiamo, senza confrontarci, per esprimere quello che ci ha lasciato.
Di cosa? Dell’opera “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf e della sua trasposizione cinematografica del 2017.
Vi affido le sue parole e le mie e vi aspetto, poi, “giù” con il “tema sensibile” di questo mese,
qualcosa che non dobbiamo “lasciare passare”.
Un po’ come certe notti e la notte della nostra vita.
LE NOSTRE ANIME DI NOTTE — Kent Haruf
(NN Editore, traduzione di Fabio Cremonesi)
— di Arcangela (@cardamomus_)
Fuga, lotta, congelamento.
Se minacciati, sono queste le tre strategie messe in atto dagli animali - uomo compreso - per sfuggire al pericolo e rispondere all’istinto più grande di tutti: quello di sopravvivenza.
Se braccato da un predatore, un animale per prima cosa proverà a fuggire – via, lontano, dove tu non possa prendermi. Se impossibilitato a fuggire ecco l’opzione B: lotta – non morirò senza aver combattuto, bastardo. Ma se anche la lotta non è una buona idea, se la minaccia è troppo grande per avere una piccola possibilità di vittoria, allora procedere con l’opzione C: congelati, induci il tuo corpo ad un illusorio stato di quiete mortifera, rallenta il tuo battito, stai immobile – sono ancora appetibile ora, vecchio ingordo?
Ma che succede se contro la minaccia che dobbiamo affrontare non c’è fuga, lotta o congelamento che tenga? Che fare di fronte ai grandi predatori della nostra epoca contro cui troppo spesso “Non c’è più nulla da fare”? Beh, dipende, è molto personale e si dice spesso che una diagnosi terminale sia affrontata dal paziente come un vero e proprio lutto: negazione, rabbia, elaborazione, depressione e accettazione. Eppure, se sei uno dei più grandi autori contemporanei hai il potere di piegare l’istinto di sopravvivenza, di plasmare il lutto e trasformarlo in qualcosa di bello. Kent Haruf me l’ha dimostrato.
Negazione, rabbia, elaborazione, depressione e accettazione (c)reazione.
Nel 2014 Haruf ha 71 anni e una vita alle spalle fatta di seconde possibilità - una carriera da scrittore venuta dopo una da insegnante, un secondo matrimonio felice dopo il primo. Non è un tipo da sedersi sugli allori, insomma. Non è uno da piegarsi al tempo e alle condanne, nemmeno quelle definitive. Forse è per questo che dopo la fatidica frase - “Mi dispiace, non c’è più nulla da fare” - non sta a lungo a piangersi addosso ma si mette alla scrivania e comincia un nuovo libro, un’ultima, toccante storia sulle seconde possibilità.
Addie e Louis sono due anziani vedovi che abitano a qualche porta di distanza in un quartiere residenziale pulito, fatto di ordinate file di villette. Un giorno Addie sorprende Louis con una proposta: ti va di passare le notti insieme? Non pensare male, insomma, vorrei solo parlare, affrontare il buio e i ricordi con qualcuno. Lui accetta – un po’ stupito, certo, ma contento di avere compagnia. Comincia così un romanzo intimo, delicato, notturno nel senso più metaforico della parola. La vecchiaia non è altro che la notte della vita, l’attesa che tutto si spenga per poi sorgere senza di noi in un ciclo infinito. E di solito di notte cosa si fa? Nulla. Si attende, appunto, ci si riposa.
O forse no?
Haruf ha distrutto anche quest’altra certezza perché noi lettori – con l’arroganza tipica di chi ancora anziano non è - seguiamo la vita dei due protagonisti con stupore: ma che fanno? Vivono? Costruiscono qualcosa? Ehi, aspettate, non vi starete innamorando, vero? E che me ne faccio ora delle convinzioni sull’attesa pacifica della morte e l’accettazione che il bello sia tutto alle spalle? Addie e Louis costruiscono qualcosa quando tutti ritengono che l’unica cosa da fare sia godere di ciò che è già stato fatto e non fare più nulla. Si danno una seconda opportunità di vivere e non pensare alle conseguenze. Il futuro è incerto, ma non fa paura, non è un blocco.
Non è finita fin quando non è finita. Ecco cosa insegnano al mondo Addie e Louis. Ecco cosa voleva dirci Kent Haruf in quegli ultimi mesi.
Le nostre anime di notte è un libro senza fronzoli (non aveva tempo, ricordate?), è un romanzo dipinto a pennellate veloci, abbozzate, ma che ti resta dentro per i colori vivaci, le emozioni forti e le riflessioni che restano incise sul cuore. È un libro scritto di fretta ma consapevole, pieno, che fila in ogni sua parte e non delude. Il finale è aperto – chissà se volontariamente o no – e dolceamaro, come tutte le storie vere, come la vita.
Haruf morì prima della pubblicazione del romanzo, non ce la fece a vedere compiuto il suo ultimo sforzo. Non si godette il successo grandioso del suo ultimo istinto creativo. Ma alla fine, forse, non è esattamente questo il senso ultimo della vita? Compiere azioni che vadano al di là del proprio tornaconto, nella consapevolezza che una piccola scelta presa oggi avrà un impatto tra dieci, venti, forse cinquant’anni e non è poi così importante quello che significa per noi, ma vedere poi cosa significherà nel grande cerchio della vita che va al di là di me e di te e della somma delle nostre esistenze.
Secondo me questo Kent l’aveva capito e ha provato – meravigliosamente – a spiegarcelo.
Per sapere qualcosina di più sull’ultima parte della vita di Kent Haruf e sulla scrittura di questo romanzo, clicca qui.
“Le nostre anime di notte” (2017), diretto da Ritesh Batra.
(101 mins, disponibile su Netflix)
— @sensibilandia
La notte ha un rumore tutto suo.
E, forse, casa è dove sappiamo dare nomi a quei rumori.
Da bambina, ho imparato a riconoscere il rumore che fa la lavatrice e più tardi a rendermi conto se è il gatto a provocarne alcuno o se non sono “famigliari”, sicuri.
La notte è un po’ un amplificatore, un colpo di scopa al quotidiano e ai suoi rumori, una lente di ingrandimento, una pausa nel pentagramma che sembra “vuota”, ma poi non lo è.
“Le notti sono terribili, non credi?”
Addie dice questo a Louis, suo vicino di casa e conoscente — come lo possono essere coloro che “incrociamo spesso”, ma su cui, magari, non ci soffermiamo davvero —, una notte. Lo fa dopo avergli fatto una proposta, quella di trascorrere le notti insieme, a letto, senza alludere però ad alcuna implicazione sessuale e solo per parlare sino a che non si addormentano, “cose così”.
Perché le notti sono le peggiori, a volte. Ed entrambi condividono la solitudine di due persone anziane e vedove da molti anni, i cui figli vivono lontano.
All’inizio del film, l’assenza dei rumori e, insieme, i rumori della notte sono pregnanti e fanno spiccare sullo schermo l’imbarazzo dei due protagonisti, sensazione che Jane Fonda e Robert Redford rendono meravigliosamente tanto da sentirsi “terzi” davanti allo schermo e, in qualche modo, volerne uscire.
Louis accetta e in realtà, accettando questa abitudine con Addie, riesce anche a svestirsi progressivamente delle proprie che rappresentano spesso più abiti mentali che la società attribuisce agli anziani che quello che questi sentono e sono spinti a fare: le parole crociate, le chiacchiere da bar, il lento farsi spettatore, quasi.
Ogni notte che passa, il dialogo si fa più profondo, un dialogo tra chi non ha più tempo di pensare a cosa pensano gli altri, di chi non ha più tempo per nascondersi, di chi ha vissuto abbastanza, forse, da non tergiversare. Non si tratta di discorsi filosofici, di riflessioni complesse e lunghe, ma di condivisione di vita, di un passato che spesso si visita solo da soli e questo attraverso scambi rapidi, brevi, concisi. Nel film, il linguaggio del corpo si fa metafora di questo avvicinamento, dell’instaurarsi della fiducia: i corpi si avvicinano ed entrambi, alla fine, rivolgono il viso l’uno verso l’altra.
Louis afferma subito di non essere una persona che parla molto e grazie ai “parlami” di Addie ritrova un lato che, invece, sembra essergli naturale e, assieme a questo, ricordando parti di se stesso, forse le ricorda anche a se stesso: riapre vecchie scatole dalla soffitta, rispolverando passioni di un tempo.
Addie ascolta, presta consiglio, rappresenta quella voce che forse Louis aveva bisogno di sentire; Louis, dall’altra parte, sembra essere l’innesco ad alcuni rivolgimenti nella vita di lei, ma il comune denominatore, il filo rosso del film, è lo stesso messaggio sotteso: la vecchiaia non è il luogo dove guardare solo al passato, dove comprenderlo e farsi, magari, consapevoli dei propri errori, in un “eterno ritorno all’identico”, ma può essere il luogo dove perdonarsi, venire a patti con il meglio che si è potuto fare negli anni precedenti, e comunque vivere; Louis aveva bisogno di uno stimolo, una sfida, per non “morire lentamente, schiavo delle sue abitudini”, e nello stesso tempo rappresenta quasi una speranza per Addie, quella di una nuova opportunità, di poter fare meglio, ma anche che questo non vuol dire dimenticarsi di costruire anche il presente che c’è, che si può afferrare, oltre che cercare di dare un capitolo finale diverso a certe storie scritte nel passato.
“Consiglio della settimana”: la serie tv “Big Little Lies - Piccole grandi bugie” basata sul romanzo omonimo di Liane Moriarty e disponibile su nowtv; composta di due stagioni, vanta un cast davvero notevole e tratta in moto sottile, ma dal taglio profondo, il tema della violenza maschile sulla donna.
Sulla stessa tematica, è anche la nuova miniserie televisiva Netflix “Maid” di cui ho sentito parlare molto bene e che spero di riuscire a vedere presto.
“sensibilando” / il “tema sensibile” di novembre.
— @sensibilandia, di nome e di fatto.
Ricordo da bambina, quando mia nonna mi ha insegnato delle “mosse di difesa” perché un bambino continuava a darmi dei pizzicotti all’asilo.
Mi chiedo se qualcuno abbia insegnato qualcosa a lui.
Non ricordo quante volte ho visto passare il messaggio “se si comporta male con te, è perché gli piaci”.
E adesso, ogni tanto, appaiono quegli slogan che dicono “non è amore se […]”.
Ricordo da ragazza, quando in discoteca, una sera, uno sconosciuto mi ha palpeggiata ed io mi sono limitata ad andarmene subito.
Il primo istinto è stato quello e non di dire “Ma come ti permetti?”, perché sia mai che quella “aggressività” metta in pericolo.
Non ricordo quante volte ci siamo dette, tra amiche, “andate in un posto affollato, vero?”.
Ricordo quando mia madre mi ha insegnato che si aspetta che l’amica entri nel cancello di casa, richiudendolo alle sue spalle, prima di andarsene. Quando ha sostenuto che i ragazzi dovessero accompagnarti sino alla porta di casa.
Perché non posso percorrere i viali attorno a casa mia tranquilla?
Non ricordo quante volte, tornando dall’università, dovendo fare a piedi una via poco illuminata, ho finto di essere al telefono.
Ricordo la scorsa settimana, quando, dovendo fare di nuovo quella via alle cinque del pomeriggio, ho chiamato mio zio “perché mi facesse compagnia”.
Ricordo di averlo imparato da mia sorella.
Ricordo quando una mia amica è stata inseguita da uno sconosciuto sino a casa.
Ricordo quando un’altra mia amica è stata inseguita da uno sconosciuto sino alla metropolitana.
Non ricordo tutte le volte in cui ho sentito detta la frase “digli che sei fidanzata, così la smette”.
Perché non posso fissare i miei confini da sola e devo dire che li ha fissati un uomo?
Ricordo quando, da adulta, ho ipotizzato che mi sarebbe piaciuto fare una parte del cammino di Santiago di Compostela da sola e mi è stato detto che non potevo farlo, perché sarebbe stato pericoloso.
“Neanche se siete in due ragazze, va bene.”
Ricordo quando ho detto a mia madre di non fare sentieri interni al parco, quando va a camminare da sola.
Ricordo che non c’è solo la violenza fisica, ma anche quella psicologica, carie invisibile dai mille tentacoli, quella che striscia dentro di te, corrodendoti, senza lasciare segni esteriori: quella che ti fa sentire irrilevante o in colpa, che ti umilia in privato e in pubblico, che ti tarpa le ali o ti chiude in casa, che ti porta a rinunce, ti fa credere di essere “difficile da amare”, che “…” — perché ha infinite sfumature.
È quella della donna che viene aggredita verbalmente, di quella che non mette un determinato vestito/capo perché “a lui da fastidio”, di quella che non esce più con i suoi amici maschi perché “non sta bene.”
Di quella che […].
Fingere di essere al telefono, andarsene senza farsi valere da una situazione potenzialmente pericolosa, raccontarsi queste cose, tra amiche, “come se fosse normale”: siamo abituate a certi comportamenti, ce li insegniamo a vicenda senza neanche dircelo; e, dietro, c’è una sorta di consapevolezza che, se nasci femmina, devi in qualche modo “mettere nel pacchetto” dell’educazione.
Ci concentriamo sul “pacchetto educativo” sbagliato.
Educare è fondamentale perché molte volte, alla base di un comportamento orrendo, c’è un pensiero, una idea, una convinzione tanto pericolosa quanto retrograda e che, se non contrastata, va, se non a causare, ad avvallare nel silenzio il problema.
“La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura.”
— Chimamanda Ngozi Adichie
Si può e si deve iniziare anche “dal basso”, dalle “radici”.
Anche dal linguaggio — perché non sono “minuzie”. Dalla scuola. Dalla presa d’atto dell’esistenza di un problema sistemico che richiede un approccio sistemico.
E che la soluzione non può essere creare un pacchetto educativo che va alla fine a smussare o a limitare le libertà della donna o dire “denunciate” (questa è un’altra questione ancora); la soluzione non può essere dire alla donna come reagire, ma concentrarsi su come evitare che sia chiamata a farlo (oltre che su come aiutarla e reagire come società quando non ha potuto).
Si può partire anche dal chiedere alle vostre sorelle, fidanzate, mamme, amiche, figlie, colleghe, alle donne che vi circondano cosa ricordano e cosa non ricordano loro.
*** Ho scritto la parte “sensibilando” ieri; questa mattina, ho appreso di quello che è successo alla giornalista sportiva Greta Beccaglia, un esempio che rischia di diventare solo l’ennesimo “ricordo quando” e che, per essere avvenuto in diretta e avendone lei parlato sui social, è diventato noto, ma non è certo un caso isolato.
Durante le interviste ai tifosi a seguito del derby Empoli - Fiorentina, un uomo si è avvicinato alle spalle della giornalista, mentre lei era rivolta alle telecamere, e l’ha palpeggiata: la donna gli ha detto subito “Scusami? Non puoi fare questo eh, mi dispiace!”, mentre il molestatore - perché di molestia si tratta - se ne andava. L’unica risposta che c’è stata? È stata quella del conduttore televisivo, con lei in collegamento, che subito l’ha invitata a non prendersela, dicendo “Dai non te la prendere, non te la prendere!”, per poi concludere, a fine puntata, con un “Si cresce anche grazie a queste esperienze.” e dire alla giornalista “Così per lo meno, puoi reagire, se vuoi, non in diretta, così ti permettiamo di reagire perché determinati atteggiamenti meritano, ogni tanto, qualche sano schiaffone che, se fosse stato dato da piccolo, probabilmente li avrebbe fatti crescere più virili”.
Non solo un uomo si è sentito libero di molestare una donna, e persino in diretta, come se niente fosse, ma invece che essere stato condannato subito, si è detto alla donna “di non prendersela”, equiparando poi l’accaduto a una sorta di “esperienza di crescita” per la donna, come se ci fosse qualcosa che dovesse imparare.
Di nuovo, l’attenzione è sul “pacchetto educativo” sbagliato.
E se un altro uomo si sente altrettanto libero di rispondere come ha fatto - e non conta molto la debole condanna finale perché è la spontaneità della sua risposta iniziale e le affermazioni seguenti che rendono evidente quanto il problema sia insito nel modo di ragionare -, allora questo è specchio di quella cultura che va a impregnare tutti quegli atti che poi, ogni 25 novembre, vengono condannati con un “mai più”, di quella cultura che bisogna combattere e che è “fatta dalle persone”.
Va insegnato al bambino che da i pizzicotti che è sbagliato e il perché e non, o non solo, alla bambina a difendersi.
È qualcosa che non possiamo “lasciare passare”.
“Cose belle da aspettare” — e da non lasciarsi sfuggire: il “Calendario dell’Avvento” organizzato dalla case editrice IlSaggiatore; ogni giorno, dal 28 novembre al 24 dicembre, la casa editrice permetterà, per soli 15 minuti, di scaricare gratuitamente un eBook dal catalogo, mettendo su instagram il link diretto nelle loro Storie.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Buona notte, grazie
e un abbraccio.