Papaveri rossi
Ricordo con precisione quanto mi stupì, quell’emozione che saliva in me come acqua in un bollitore; non riuscivo a identificarla, a capire perché mi trovassi una sera d’estate a piangere fuori dall’università: era il mio corpo che stava registrando quella cosa strana, di essere raggiunto dalla vita, di sentirla, e non solo indirettamente o formalmente, perché era entrata; “allora non sono morta”, pensai, non è tutto bruciato o forse sì, ma riesco comunque a vedere le stelle.
E se riuscissi a vederle perché il tetto si è bruciato?
Nel terremoto che è stato, alcune stanze sono andate distrutte, altre le ho abbandonate, anche se quella abbandonata mi sentivo io; sono parti di noi silenti, da imparare ad abitare; sono stanze che ci aspettano, coperte da teli di protezione che, se non stiamo attenti, possono soffocarle, ma che un giorno sentiremo muoversi per un soffio di vento, lo sguardo di uno sconosciuto, il primo morso a un frutto estivo, e così li scosteremo e troveremo quella parte di noi che ci ricorda che “non siamo morti”.
E allora piangeremo, o almeno io l’ho fatto, mettendo una mano sul petto, pensando che fosse un attacco di panico ed invece era, per la prima volta dopo tanto tempo, un attacco di vita. Per me.
Tra le stanze più difficili da affrontare ci sono quelle che non possiamo abitare più. Sono enormi, facilmente accessibili — la strada per arrivarci la conosciamo a memoria, apparentemente confortevoli. Ci finiamo, spesso, senza neanche rendercene conto, come quando apri il frigorifero di casa e poi ti domandi perché lo hai fatto. Ma a quel punto sei lì, e perché non prendere qualcosa da mangiare?
Sono stanze che ci nutrono.
Ma di cosa? Di cosa.
Di vie senza uscita, di distorsioni. Sono stanze ricoperte di specchi che ci riflettono sformati, dove sono proiettate immagini “photoshoppate” dalle nostre emozioni negative o ricordi trasformati in canti di sirene. Sono luoghi pieni di filtri.
Chiudersi la porta alle spalle non vuol dire rinunciare a quello spazio; regalare così tanto spazio di sé a una illusione o fantasia prosciuga le energie e il presente.
Così ci si siede a terra, a gambe incrociate, come da bambini sul tappeto pieno di giocattoli, e si guarda in quegli specchi il proprio riflesso. Tante volte. Infinite volte. Come a riscoprire di nuovo il proprio corpo, si guardano le proprie mani e poi il loro riflesso. Le mani. Il riflesso. E così tutto il resto. Si coglie il filtro, la distorsione. Ad ogni tentativo, lo specchio è un po’ meno sformante. La stanza è più piccola, ci sta mangiando meno spazio. Fino a che non rimane solo il tuo riflesso su una parete riflettente. Una sorta di quadro che ti riporta al presente.
Certe stanze diventano affreschi antichi, qualcosa che ci accompagnerà sempre, ma che non sarà un muro portante o una stanza in cui rifugiarsi. Sapremo che ci sono, ma che non possiamo soffermarci su di essi, che restaurarli sarebbe creare un paese delle meraviglie, troppo “bello” per essere vero.
Cattureranno il nostro sguardo e ci volteremo a guardarli, senza farci fermare però, come i papaveri rossi sul ciglio delle strade.
A fine aprile sono stata a Londra a vedere lo spettacolo teatrale tratto dal libro “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara (di cui vi ho parlato sino alla nausea qui); la sceneggiatura è stata scritta (oltre che essere diretta) da Ivo van Hove e la rappresentazione è stata messa in scena all’Harold Pinter Theatre.
Se è stato difficile parlare del libro, lo è ancora di più con riferimento allo spettacolo. Non sono stata abbastanza a teatro né ho alcuno studio alle spalle in tal ambito per poter commentarne, anche da inesperta, la recitazione o la struttura.
Posso, però, dire due cose che sono in grado di darne, magari, la misura: alcune scene mi hanno fatto piangere (hanno fatto piangere in generale, perché nel buio del teatro si potevano sentire diverse persone nella platea cercare fazzoletti e soffiarsi il naso), ma, soprattutto, sono state difficili, davvero difficili, da guardare.
Se il libro emotivamente, probabilmente perché letto nella mia lingua madre e per il fatto stesso di essere una esperienza diversa, mi ha coinvolto maggiormente, o forse sarebbe più corretto dire “più lungamente” (?), lo spettacolo, indubbiamente, mi ha turbato di più. Più di quanto abbia fatto il libro stesso - cosa che non credevo possibile.
Perché, mi sono chiesta?
Amo le parole (inutile dirvelo) e le preferisco alle immagini; ho pianto davanti a diverse trasposizioni cinematografiche, ma le parole hanno sempre avuto maggior presa dentro di me. Forse perché ti accompagnano per più tempo, perché il film te lo crei tu, leggendo. Per come riescono a scavare, a scavarti, senza che tu te ne renda conto, in un modo in un certo senso spesso più subdolo di quello proprio delle immagini.
Finisco, leggendo, in vite diverse da cui, invece, mi sono sempre sentita più lontana, separata, se raccontate attraverso un film. Ancora una volta, sento un filtro.
Questo è crollato completamente quella sera a teatro — perché non c’è. E non solo.
Se, leggendo, la mia mente crea una sorta di trasposizione cinematografica nel mentre, dall’altra parte, mi sono resa conto, mi protegge: per quanto le descrizioni possano essere dettagliate, per certe scene così crude e “cattive”, così dolorose, che ho la fortuna di non poter comprendere perché non le ho mai vissute, c’è un livello, più profondo, a cui forse la mia mente non mi porta. Una stanza che non riesce a costruire. Le parole, così, non hanno una presa tale da farsi pareti.
Su quel palco, quella sera, invece, io ero in quella stanza. Mi ci sono seduta.
Era lì, con i suoi suoni, il suo realismo. E con me.
E il filtro, seppure flebile, che una lingua diversa dalla tua può comportare, è stato divelto dalla potenza della recitazione.
E avrei voluto chiudere gli occhi.
E, così come per il libro, ho pensato: “resterà nel mio cuore, ma non so se riuscirei a rileggerlo/rivederlo”.
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1. | poesia
A letto,
ascolto la pioggia.
Ha tanto da dire.
Mi chiede perché
cade
su ingiustizie
non combattute
da uomini
che si fingono
ciechi,
sordi
e muti.
Su paure di bambini,
di non essere capiti
di giovani
di non essere abbastanza
di adulti
di non poter cambiare più.
Su parole non dette,
su troppi silenzi.
Su occasioni perse,
su persone dimenticate.
Su sogni abbandonati,
su chi ha perso la capacità
di sperare.
Su “ti amo” impigliati in gola,
su sentimenti soffocati
o appena accennati.
Su cuori spezzati,
aspettative deluse.
Su bocche che mentono
o che non sanno ringraziare.
Sulla rabbia di chi
non è stato capace di amare
quando era l’unica cosa
che avrebbe voluto fare.
Sulla distanza che separa,
i ricordi che svaniscono,
sul tempo che scorre
davanti agli impotenti
uomini,
sulle ferite
inferte
e subite.
Sui perché a tante
domande
e sulle poche risposte.
Ascolto
la pioggia.
Urla,
è irrequieta.
Mi chiedo perché
cade anche su di me
che non so risponderle.
—
“Women” | Angera, 6 maggio 2023
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui”.