È la vita.
Sono gli altri.
Quando inizia un nuovo mese, mi piace pensare a quale filo rosso seguire con le mie newsletters, anche se mi rendo conto che è più uno sguardo a volte, con quale sguardo scrivere, ecco.
Volevo fosse la vita, volevo fosse per gennaio, ma poi non è andata esattamente così, proprio perché “la vita fa quello che vuole”: mi sono occupata così tanto di parole in altri ambiti che è come se avessimo bisogno entrambe di più pause, ogni tanto; così ho letto poco e ho scritto poco, come se mi dicessero “ancora cinque minuti” quando cercavo di tirarle fuori dalle coperte della mia mente. Così gennaio è diventato febbraio e la Vita si è presa anche questo mese.
Mi sono accorta che in ogni newsletter vi ho raccontato di un libro e che in ogni libro la vita si intreccia al tema del dolore, della malattia e non era una cosa che avevo previsto; anche il libro di cui vi parlo oggi, “Il grembo paterno”, affronta queste tematiche: per quanto non sia restia a trascinarmi in questi argomenti, dopo “Una vita come tante” avevo pensato di leggere qualcosa, se non di leggero, di più semplice, invece l’ultimo libro di Chiara Gamberale l’ho trovato denso e magmatico. Di nuovo, non è andata come avevo previsto, ma è una lettura che può concludere perfettamente questi due mesi insieme e di cui vi lascio la mia recensione/riflessione alla fine della newsletter.
Le newsletters di gennaio e la prima di febbraio:
La vita dell'erbaccia e le "vite che non sono la mia". Del nostro dolore e di quello degli altri.
Frammenti di vita. E tra gli scaffali della mia libreria, con il "tema sensibile" del mese di Gennaio.
"Una vita come tante", ma non un libro. Tra gli scaffali della mia libreria.
Della tutela della vita, invece, ne parlano diversi volumi sui quali ho studiato; mia madre spesso dice che è “utopia” quello che penso, eppure, altrettanto spesso, è “dalla carta” quello che penso, non dalla carta dei miei manuali universitari, ma dalle carte, anche internazionali, di cui quelli trattano, di cui ci si fregia, anche: penso ai libri di diritto internazionale o di diritto dell’unione europea, all’idealismo che hanno nutrito in me e alla formalità che spesso assume alla quale non riesco proprio ad arrendermi. Mi rendo conto che questo è infantile, che “il rispetto dei fondamentali diritti umani coincide con la visione del mondo che hanno i bambini”, che nella seconda newsletter di gennaio, parlando anche del giorno della memoria, ho proprio detto quanto uno di quei manuali, “La tutela internazionale dei diritti umani”, dimostri quanto l’attentato alla vita continui a perpetuarsi ai giorni nostri: forse, quindi, davanti alle notizie di questi ultimi giorni, non mi sarei dovuta “sorprendere”, eppure il mio “crederci” ha incontrato nuovamente una resistenza. Non ne leggevo su un libro di Storia o su un manuale universitario, come in tutti i casi in cui è “l’adesso” ad essere ferito, non c’è il passato o la carta a creare una barriera che difenda l’idealismo: lo sento vulnerabile, una architettura così fragile. E il nostro mondo tecnologico azzera ogni possibile ulteriore filtro e quando l’ “adesso” è anche in un “qui” più vicino, inevitabilmente, umanamente, “vediamo meglio”.
Qualche esame universitario, naturalmente, non è che un granello minuscolo di nozioni per tematiche così vaste e attuali, e forse nella frase che dice che “l’università non ti prepara alla vita”, c’è anche questo: non si tratta solo di non saper, magari, fare cose concrete, ma anche di non essere abituati a guardare le sovrastrutture, le deviazioni travestite da scorciatoie, di quella architettura, ma se non si conoscono, loro e il loro funzionamento, come si fanno a combattere?
Sono discorsi “campati in aria”, riflessioni che scontano proprio l’ignoranza, inteso proprio come l’ignorare, i modi in quelle deviazioni sono ovunque. Forse è questo che mia madre intende quanto parla di “utopia” e a me viene sempre in mente la dedica che apre il mio manuale di “La tutela internazionale dei diritti umani” come risposta:
“A ben vedere, il rispetto dei fondamentali diritti umani coincide con la visione del mondo che hanno i bambini. Sovvertire questa visione, introducendo nel contesto umano i comportamenti con i quali il più forte abusa del più debole, non costituisce un superamento della fase infantile della umanità, ma un regresso verso una condizione sub-animale.”
Per combattere il mio ignorare, sto seguendo la vicenda come riesco (personalmente, preferisco leggere piuttosto che guardare il telegiornale); Internazionale, ilPost, Cecilia Sala, Ferdinando Cotugno, Torcha, sono alcuni dei “canali” che guardo e vi invito a condividere i vostri nei commenti pubblici, se volete lasciare qualche consiglio a tutti.
Non allontaniamoci.
“Sì, perché è questa la verità. La sofferenza degli altri fa tanta paura e non ne sappiamo neanche il motivo. Forse perché, allontanandola, pensiamo che non ci riguardi.”
Questa frase è tratta dal film — il “consiglio della settimana” — “Marilyn ha gli occhi neri” (2022), dir. Simone Godano, sceneggiatura di Giulia Steigerwalt, disponibile su Netflix.
Di nuovo, vita e malattia in un film sensibile, profondo, umano in tutta la sua fragilità e che ci ricorda di non “lasciare correre”, perché dietro ogni disinteresse, anche nel comprendere, nel capire, c’è una solitudine che si fa strada e dilaga.
La “cosa bella” di questa settimana è questo testo che mi ha inviato tempo fa una mia amica e che penso sia perfetto per “chiudere” il nostro discorso sulla “vita degli altri”; la lettura richiede qualche minuto, ma ne varrà assolutamente la “pena”: David Forser Wallace - “Imparare a pensare, la libertà di scegliere” (discorso ai laureati del Kenyon College, 2005)
IL GREMBO PATERNO — Chiara Gamberale
(Ed. Feltrinelli)
Una lettrice su goodreads lo ha definito un "romanzo denso" e penso anche io che sia proprio così: denso per le tematiche trattate - che sono sicuramente difficili: i disturbi alimentari, la maternità, gli effetti della relazione padre-figlia -, ma denso anche per la scelta di come trattarle: forse è perché sono reduce da "Una vita come tante", dove le emozioni sono ben snocciolate, ma ho trovato il linguaggio un po' troppo da interpretare alcune volte. È sicuramente un testo che solleva tante domande e riflessioni - e questo è un pregio -, ma mi ha lasciato anche "confusione"; non escludo, però, che sia perché alcune sue tematiche mi toccano personalmente, perché mi ha un po' "scombussolata".
La famiglia è la prima "società" dove ci muoviamo, all'interno della quale impariamo regole e comportamenti, ma dove anche assumiamo un ruolo,"un posto a tavola", inconsapevolmente, in un gioco di specchi e di contrasti.
Adele è l'unica figlia femmina in casa e, a differenza di sua madre, non riesce a reggere il "silenzio" o, meglio, quello che in una famiglia il silenzio dice, le "presenze" che nasconde: reagisce portando "allo stremo" suo padre, con le parole, come se farlo infuriare a cena riuscisse a placare poi ogni cosa. E così, mentre assume un ruolo che forse ci si aspetterebbe più da sua madre, si sente "l'unica" per suo padre: a reggere le sue sfuriate, il suo carattere, e quindi anche il suo amore.
È però un amore che non la sfama mai, perché per lei non c'è davvero spazio - perché, mentre combatte con "quel silenzio", le sue esigenze sono sempre silenziate: è più una lotta, dove si spostano continuamente i confini di un equilibrio, un amore "da fiato corto".
Capire che non è quel "modo d'amare" che la fa stare bene, da ricercare, è qualcosa di difficile e che passa anche dal sottrarsi da quel "posto a tavola", dal ruolo di chi si presta a raccogliere ogni cosa o ributtarla fuori, di chi si presta a prendere il ruolo che hanno bisogno gli altri; è qualcosa che passa anche dallo slegarsi e quindi dall'idea della solitudine, forse.
Che passa dal trovare il proprio concetto di "restare accanto a qualcuno", un concetto che non faccia male.
Dove restare è in un "luogo" dove, anche quando vorresti essere altrove, rimani e non perché ti manca qualcosa o hai paura delle “presenze”, non perché non vuoi fare domande o sentirne, ma perché vuoi continuare a "indovinare bene, a indovinare male, a inventare la vita, a imparare l'amore" lì. Dove scegli di restare, anche se ti potresti slegare.
Capire che non è quel "modo d'amare" che la fa stare bene è qualcosa di difficile e che passa anche dal "pretendere", anche per se, nei suoi confronti, quell'amore.
“Avere voglia di esserci, anche se, proprio perché, quella persona c'è. La fatica disumana, e però irrinunciabile, di esserci.”
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).