Agosto, da qualche anno, come una domenica infinita.
Di quelle dall’erba gialla che punge la pelle dei piedi scoperta dai sandali. Di quelle delle altalene che giocano a rimanere più immobili dell’aria; il ferro che scotta, la terra polverosa che reclama suole e grida. Chissà se per loro è tregua, o solitudine.
Guardo il dolore di Luglio, un filo che dovrò imparare a gestire.
Si srotolerà ancora, lo so: imparare a non lasciarsi sfilacciare, imparare a non lasciarsi imprigionare.
Un nuovo gomitolo per il mio mostriciattolo nel petto; lo studiamo insieme, diffidenti, come dei gatti tra di loro.
Non ho la forza, però, di soffiare.
Ho sempre temuto quel punto in cui l’immobilità si trasforma in qualcosa di ineluttabile, un punto del tempo che è come
un precipizio di una scogliera,
il bruciore nello stomaco dopo che hai bevuto qualcosa di forte,
un messaggio inviato di notte.
Non è il salto, né l’atterraggio, è cosa mi lascio dietro, cosa “non è più”.
Agosto è quel mese che più “mi chiede il conto”, il suo ultimo giorno, il vero “ultimo dell’anno”.
I pensieri si riversano come dei turisti in un paesino che ben conoscono: si muovono sicuri, tra le mie città invisibili, abitudinari; si riconoscono tra di loro, come amici di vecchia data; si fermano, con i loro bagagli - tutti gli “e se”, i “ma”, gli “avresti”, “potresti”, “saresti”, “dovresti”.
Un pranzo della Domenica infinito, alla cui fine dovresti poi partire, rimetterti in viaggio per casa, ma i turisti di Agosto poi non partono mai.
Chiedono il conto, di essere visti.
Srotolati anche loro.
Seguono il ritmo di questo mese, una lenta marea.
Quando se ne andranno, avranno lasciato qualcosa sulla spiaggia.
Qualcosa da raccogliere.
Il punto del tempo, il precipizio della scogliera, il bruciore nello stomaco dopo che hai bevuto qualcosa di forte, un messaggio inviato di notte.
Come dei bigliettini che hai ripiegato più volte per fare più piccoli, perché occupassero meno spazio.
Agosto come solitudine,
ma anche come tregua,
la stessa malinconica delle altalene,
dei fantasmi dei giochi alle due del pomeriggio.
— Agosto 2021
“Che bella la sportina.”
L’ho guardato con aria interrogativa. “Come?”
“La sportina, la borsa.”
“Ah, grazie!”. Nella mia testa si era accesa una piccola lucciola di comprensione, aveva preso a vagare in quei cassetti della memoria dove quel termine mi era, se non famigliare, almeno conosciuto.
Ero in attesa dell’ascensore e avevo notato che quel signore (? come si definisce una persona che non è né anziana né più giovane, me lo sono sempre chiesta) mi aveva osservata; credevo si stesse chiedendo cosa facessi in università con delle scarpe rosse. E in quel momento, tra il caldo e l’ansia, avrei voluto non saperlo neanche io.
Invece, aveva notato la borsa di tela adelphi che stavo portando, in regalo l’anno scorso, a fine luglio, con la promozione della casa editrice.
Per un secondo, ho pensato a mia madre che ogni volta che esco con quella mi guarda un po’ rassegnata, un po’ sconsolata, e mi saluta con un “va bene essere green, però…”. Le avrei detto sicuramente come uno sconosciuto, invece, l’avesse apprezzata.
“È un termine un po’ antico, in effetti, sportina” aggiunge, mentre le porte dell’ascensore si chiudono accanto a noi.
Gli sorrido, pensando all’assurdità che mi stavo andando a laureare e parlavo di sportine in ascensore con un estraneo. Penso anche che quel momento era molto “da me”, un misto di cose improbabili insieme. All’improvviso, voglio ancora più bene alla mia borsa di tela, che ha fatto avanti e indietro in biblioteca negli ultimi mesi.
Alla mia sportina.
E in un moto altrettanto improbabile e mio, dico allo sconosciuto:
“Sa, se vuole la trova anche adesso, è in promozione, anche se diversa, acquistando due adelphi.”
C’è stato un attimo di interdizione reciproca in cui ho temuto non sapesse cosa intendessi con “adelphi” e dopo il quale mi ha detto “ah dai, grazie!”.
Chissà se ha acquistato due libri, poi.
Ma, in fin dei conti, l’ho fatto per le sportine di tutto il mondo.
Cosa sto leggendo
A proposito di adelphi, ho ripreso, molto lentamente, a leggere e il primo libro sul comodino era “Yoga” di Emmanuel Carrère (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala): sono solo all’inizio, ma so che sarà una escalation di fascino e attrazione — così come è stato per “Vite che non sono la mia” (di cui vi ho parlato in una precedente newsletter).
“All’inizio del viaggio, dice una storia zen, la montagna in lontananza sembra una montagna. Nel corso del viaggio, la montagna cambia continuamente aspetto. Non la riconosciamo più, al suo posto c’è un’immagine illusoria, non sappiamo più verso che cosa ci stiamo dirigendo. Alla fine del viaggio, ecco di nuovo la montagna, che però non ha niente a che vedere con quello che scorgevamo da lontano tanto tempo prima, quando ci siamo messi in cammino. Questa è davvero la montagna. Finalmente la vediamo. Siamo arrivati. Ci siamo.
Ci siamo.”
— pg. 33
Cosa sto ascoltando
o meglio, di cosa sto facendo indigestione perché è sempre così, quando ci si innamora di qualche canzone:
“bye bye” di Oscar Anton
“Matilda” di Harry Styles
“With you” di Dotan
“Cose belle”
Mourad Saعdi, oltre che una persona gentilissima, è un fotografo che ho conosciuto tramite i social e il cui sguardo mi ha subito catturata.
Vi invito assolutamente ad andare a guardare i suoi lavori perché testimoniano uno sguardo verso l’umanità, attento e spontaneo insieme, scevro da filtri di ogni tipo, che è da conservare. Nella frenesia delle strade, la vita pulsa in tantissimi modi, ma spesso siamo troppo “presi da altro” per soffermarcisi: i suoi scatti permettono, a mio avviso, questo, di “sostare” sugli altri, in un modo per niente invadente e rispettoso, ma così autentico e rilevatore che non si può non pensare “vorrei che mi scattasse una foto per strada”.
Fotografo ciò che sento.
Quando incontro le sue fotografie, come se fossi sulla metropolitana, non posso fare altro che immaginare la storia delle persone immortalate, i loro pensieri.
Ieri, davanti a questo scatto, e al “ti penso” come sua didascalia, mi hanno raggiunta alcune parole e chissà, magari alcune sono state davvero espresse.
Ti penso.
Lo scrivo qui sulle note. Perché almeno prende un po’ di respiro, questo sentimento: pensarti senza dirtelo. Mi capita spesso, ma di solito lo imbottiglio, lo deglutisco. Immagino una biglia scendere sino a quell’antro di cuore dove sei, raggiungere le altre. Oggi il cielo è troppo azzurro e fa troppo caldo per riuscirci: tengo con me la biglia, me la rigiro tra le mani, pensando alle tue, a come percorrevo le tue nocche come punti di una corteccia, sempre diversa e sempre da scoprire. Vorrei poterci fare qualcosa: lanciarla nel Naviglio? Abbandonarla? Qui, su questo muretto, come un rifiuto, perché un po’ la rifiuto. Come si fa la raccolta differenziata dei sentimenti? Dubito che la soluzione sia riempire quell’antro di cuore. Dovrei liberarlo, invece, così usciresti, libera da pensieri che non sai neanche esistere.
Ti penso. E che fastidio, lasciamelo dire.
E mentre penso che ogni posto per me, anche la Darsena d’agosto, è troppo affollato se non ci sei tu, che i rumori degli altri sei capace di “abbassare”, mi ritrovo a deglutire questa ennesima biglia, quest’ennesimo pensiero che non ti raggiungerà mai.
Che fastidio, lasciamelo dire.
“Cose interessanti” — tre articoli:
La storia ci dice che tipo di rivoluzione nasce da una pandemia
Laura Spinney, New Scientist, Regno UnitoLa trappola della perfezione
Josh Cohen, 1843 The Economist, Regno UnitoPer essere più felici siate coraggiosi, non sconsiderati
Arthur C. Brooks, The Atlantic, Stati Uniti
I traumi, come le epidemie, creano costellazioni di “mutazioni” ideologiche
Questa citazione è tratta dal primo articolo di cui sopra; quanto è bella? E quanto è vera, applicata anche ai traumi personali che ognuno di noi si trova ad affrontare singolarmente (e non come società)?
“Costellazioni di mutazioni ideologiche”: nuove strade nella nostra mente, di pensieri, tramite i quali resistiamo, reagiamo, affrontiamo. E finiamo per indirizzarci. L’importanza di lavorarci, e la fatica, a volte, di ripercorrere quelle strade, una volta che abbiamo capito che non ci portano “a casa”.
Tra le altre cose, mi viene in mente l’incipit della poesia di Montale
“Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.”
Con quest’ultima “portata sparsa”,
vi abbraccio e vi auguro una buona domenica.
Grazie, come sempre.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).