Se non hai mai vissuto qualcosa, come fai a...? "Lasciare in sospeso"
Di storie mai scritte o da leggere, storie a cui aprirsi e di altri "lati" di una storia.
Chissà dove vanno le cose lasciate “in sospeso”, chissà come è la loro sala d’attesa. Penso a quella di un ospedale o a una stanza in soffitta.
Penso all’infinità di caffè, di abbracci, di “adesso mi butto”, di telefonate, di baci, di bozze di email e appuntamenti che si aggirano tra di loro con in mano un numerino, come quello che ti danno alle poste o quando stai aspettando di fare gli esami del sangue; me li immagino riconoscersi, tra di loro, cogliere quell’attimo che noi non siamo mai capaci di ascoltare e avvicinarsi.
Tutti in attesa di essere chiamati e diventare ricordi, anche spiacevoli, magari, perché la realtà non è mai solo luce; di diventare vita vissuta, perdere quella perlescenza che mi immagino abbiano le cose in sospeso. Diventare qualcosa di concreto, reale quanto imprevedibile.
Non li immagino tristi, solo consapevoli. Li immagino ridere di noi, così impegnati in mille altre “cose”, così convinti di altro, così insinceri, a volte, tanto da creare cose in sospeso che non dovrebbero esistere.
E mentre loro, piano piano, diventano via via più impalpabili, più trasparenti, noi ne sentiamo tutto il peso, magari, e li trasformiamo in “se”, in “se” stupidi, ovviamente,
perché se non hai vissuto una cosa, come fai a sapere come sarebbe andata?
Mi immagino quelli che spariscono per sempre e, così, diventano un qualcosa che non sapremo mai — anche se, magari, c’è un’altra versione di noi che chiama quel numero in un’altra realtà, chi lo sa. Mi immagino quelli buttati a capofitto nella vita. Mi immagino una stanza con quelli abbracci che non abbiamo dato e non potremo più dare, ma immagino anche che non saremo più così sciocchi da rimandarli.
E, tra tutti quei caffè, abbracci, “adesso mi butto”, telefonate, baci, bozze di email e appuntamenti, c’è un qualcosa che ognuno di noi sente più pesante di altri.
Delle volte siamo noi a poter chiamare “quel numero”, altre volte ciò significa solo coglierlo.
Chissà dove vanno le cose lasciate “in sospeso”.
“Consiglio della settimana” — di altri lati di una storia: il documentario Netflix “Britney vs. Spears” (2021) che fa riflettere, tra le altre cose, sul ruolo cruciale del diritto di difesa tecnica, del diritto di poter scegliere un proprio avvocato di fiducia, diritto che, spesso, nel nostro ordinamento diamo per scontato o mettiamo in discussione relativamente a certi ambiti: e se ci fosse negato?
“Cose belle” — di storie a cui aprirsi: il progetto internazionale “Human Library Organization”, nato nel 2000 in Danimarca e poi riconosciuto e incoraggiato come “buona prassi” (anche nei contesti educativi come scuole e università) anche dal Consiglio d’Europa nel 2003 e con “biblioteche viventi” oramai in tutto il mondo; di cosa si tratta? Una biblioteca di storie dove queste, però, non sono veicolate da libri, ma dalle persone che le hanno vissute e possono così essere “prese in prestito” per 30 minuti (tempistica che, spesso, gli ascoltatori chiedono di allungare) da chi voglia ascoltarle, nel rispetto altrui e nell’ottica di contribuire all’abbattimento dei pregiudizi e degli stereotipi (ogni persona ha un “titolo” che, molto spesso, richiama esperienze personali e tematiche sociali forti, ma non solo), alla creazione di una connessione empatica, in un contesto positivo, che possa portare a riflessioni e a nuove consapevolezze, nell’affermazione che, come non bisogna giudicare un libro dalla copertina, così vale per le persone che incontriamo.
Perché se non hai vissuto una cosa, come fai a sapere come ci si sente a viverla, cosa comporta questa esperienza e tutte le altre implicazioni possibili?
Un libro “in sospeso” nella mia wishlist che ho, finalmente, deciso di leggere assieme a un gruppo di lettura — di storie da leggere: “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara (tradotto da Luca Briasco per la casa editrice Sellerio), un libro da cui mi sento calamitata per la mia sensibilità, ma anche che, per questa ragione, “temo”.
Ma se non lo leggo, come faccio a sapere?
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Buona prima domenica di questo novembre e un abbraccio.