“Bevila subito!”
Me lo diceva sempre mia nonna, dopo aver appoggiato il bicchiere con la spremuta sul tavolo, mentre studiavo. Usavo una tovaglia color cielo opaco: ricordo ancora il punto in cui era rovinata e gli inevitabili segni di penna che vi lasciavo.
Bevila subito, che “sennò si ossida”, perde le sue proprietà. Prima di sapere che è vero, pensavo che esagerasse, che volesse semplicemente che la bevessi. E invece no.
Ho preso tanti treni in questi ultimi mesi. Insomma, “tanti”, per me. Ne ho perso anche qualcuno. “È un treno che passa solo una volta nella vita” è una di quelle frasi fatte che almeno in un’occasione ci siamo sentiti dire o abbiamo detto; mi affascina, spesso, pensare a come una frase diventi un luogo comune — mi diverte, anche.
"Solo una volta nella vita”: che ansia. Come rincorrere le proprietà della spremuta, prima che svaniscano nel buco nero delle cose che “avremmo potuto”.
Le prime volte che ho iniziato a prendere il treno, era su quello che mi concentravo: orario di partenza, numero di riferimento, binario, carrozza, posto assegnato. Partivo spedita in quella direzione, in ansia di sbagliare qualcosa. Un po’ come nelle prime settimane di scuola, quando hai cambiato aula e ogni mattina pensi solo a fare il tragitto giusto e ad arrivare a destinazione.
Poi familiarizzi, l’agitazione si affievolisce di volta in volta e inizi a guardati intorno.
Ho scoperto la stazione. Ho scoperto, così, la sua umanità, l’insieme indeterminabile di storie che potrebbe raccontare. Mi sono sof(fermata).
Vi sfido, un giorno, ad andare in una stazione e a non vedere nessuno baciarsi: ho visto persone di tutte le età e sesso scambiarsi baci. Una ragazza teneva una ciocca di capelli di un’altra, la guardava come se volesse fotografare la sensazione della loro leggerezza sulla sua mano. Quel momento mi è sembrato eterno ed eppure non lo è stato affatto.
Lasciare qualcosa, prendere un treno, tornare a casa, scappare, provare.
In ogni stazione c’è un’andirivieni di storie, ognuna delle quali cambia il significato di quel “treno che passa una volta sola”, ed è così che ho capito che ci sono treni che puoi prendere in determinate stazioni, mentre in altre “non puoi” salirci. Non “vuoi”, in un certo senso, salirci, per la storia che sei e stai scrivendo. È così che ho capito che ognuno di noi è una stazione in divenire, un’infrastruttura in costruzione, fatta di aspettative, progetti, consapevolezze, cambiamenti, errori, di un gomitolo di individualità che fa sì che il “come” mostri quel piedistallo di cartapesta dove il “verso dove”, scevro e nudo da qualsiasi altro aspetto, viene quasi sempre posto.
“Ci sono treni che passano solo una volta nella vita”, ma forse crescere è capire che la destinazione può essere comunque raggiungibile e che non è così semplice, che possiamo essere una stazione di più partenze.
Rileggo una mia frase, “vorrei avere la certezza di sapere che arriverò a una stazione”, e penso: ecco l’errore, credere che un punto, qualsiasi abito metaforico esso assuma, corrisponda a una tregua, non capire che sei tu la stazione. Ed eppure l’ho appena scritto e adesso mi sembra così chiaro: siamo noi la stazione a cui arrivare, da cercare, la stazione di cui dobbiamo avere cura e così quella da costruire, perché siamo la stazione da cui ogni volta dobbiamo ripartire.
Perché siamo la stazione da cui possiamo prendere i treni o addirittura costruirne uno e magari poi raggiungere la “destinazione” a tappe, forse anche tornando indietro o perdendo qualche fermata.
La possibilità di costruirci e la fatica nel farlo. La gratitudine di poter lavorarci, sulla nostra stazione. Di poterla plasmare.
Il 2022, per me, è stato l’anno che più mi ha detto “probabilmente non sei più chi sei stata ed è giusto che sia così”.
Come l’ho capito? Vivendo uno degli anni che ricorderò di più nella mia vita.
Un anno fa vi scrivevo: “Il mio auguro per questo 2022, per l’inizio di un nuovo giro della terra, per il futuro, per questo costrutto sociale che riusciamo solo così a capire, per qualsiasi cosa sia, sono tante coordinate emotive da fissare e le possibilità e il coraggio di ascoltare e dialogare con quell’orologio emotivo che abbiamo, misterioso quanto il tempo stesso, che forse dice quello che vogliamo più di quanto pensiamo”.
Settimane fa, ho scorso la galleria del mio cellulare e ho salvato una foto per ogni mese di questo 2022 che avesse un significato pregnante per me: una coordinata emotiva. Ognuna di queste mi ha fatto capire qualcosa, mi ha portato a un dialogo con me stessa che solo la vita è in grado di darti, un dialogo con quell’orologio emotivo che ognuno di noi ha.
Le prime volte che ho iniziato a prendere il treno, era su quello che mi concentravo: orario di partenza, numero di riferimento, binario, carrozza, posto assegnato. Guardavo il tabellone, le sue scritte arancioni in continuo cambiamento.
Ma è il nostro orologio emotivo che conta, che fa la differenza.
Quello che quest’anno mi ha insegnato che, a volte, quello che vogliamo non è quello di cui abbiamo bisogno.
Che i treni possono non essere in orario per noi, perché il nostro tempo è un altro.
Che siamo la stazione su cui soffermarci, per poter fare sempre più viaggi. Più esperienze in cui non ci sentiamo turisti.
“E allora io vi auguro di trovare la vostra Itaca, qualsiasi forma essa assuma per voi.
Di mettervi in viaggio, se non siete già partiti.
Anche se può essere estremamente doloroso.”
Era, questo, il mio augurio per il 2022.
Mi piace ora pensare che Itaca sia la stazione che, crescendo, sbagliando, faticosamente, anche dolorosamente, oggi vi auguro di continuare a costruire: è alla fine questa il viaggio e la partenza. Non facciamo che sia un arrivo e non scambiamo le fermate per delle prigioni.
La spremuta d’arancia va bevuta subito o perde le sue proprietà.
Noi possiamo costruirci. E che cosa meravigliosa e spaventosa è mai questa è solo la vita che ce lo mostra, in un modo che non è mai lineare come i binari del treno.
In questo anno, pieno di oscillazioni, le ho sentite tutte: alcune le ho percorse e assecondate, anche sbagliando; altre mi hanno portato “dove non sarei andata da sola”; alcune ancora non riesco a capirle e sono ragnatele di pensieri che finiscono per ingarbugliarmi; mi hanno fatto sedere sulle scale un pomeriggio d’inverno, e singhiozzare nella casa vuota, ma anche offrire il gelato a quattro suore questa estate, semplicemente perché mi avevano suscitato cose belle e volevo restituire un po’ di quella gentilezza nel mondo; mai come in questi mesi, mi fanno sentire “fuori fuoco”, ma anche come il “mio” presente, il mio tempo, può non essere dato per scontato; mi hanno fatto riabbracciare una amica che non vedevo da 15 anni e fare una “seduta terapeutica” in abito da cerimonia, sentire la libertà di esporsi e la stanchezza di non farlo; mi hanno portato a vivere “ore blu” che ricorderò per sempre, ad aprirmi con una sconosciuta in treno, a fare sì che non lo fosse più e a leggere solo tre libri in tutto l’anno; a volte, mi fanno guardare a me stessa con la stessa ferocia di una gatta randagia ferita, altre con una tenerezza in grado di ricomporre ogni cosa.
Forse “vivere il presente” è capire dove si è in tutte le cose che si fanno e cercare di fare, nel più possibile, “solo quelle": non allontanarsi, non permetterlo né ai ricordi del passato né alle ansie del futuro. E questo passa anche per tutti quei momenti in cui soffriamo per non sentirci, nel nostro presente.
Altre cose che ho capito in questo 2022, in ordine sparso:
il genuino significato del “rivedersi”, il ricongiungimento puro e semplice, che è la voglia che accada a dare un senso al termine “famiglia”, che il presente insieme, quando tutti stanno bene, è il vero lusso;
i gabbiani sono delle sveglie molto efficaci (anche troppo);
gli gnocchi di zucca su letto di gorgonzola e cosparsi di amaretto sono una favola;
siamo nelle parole che conserviamo, ma anche in quelle che lasciamo andare e che abbiamo superato, dove non siamo più: siamo lì proprio perché le lasciamo andare e le abbiamo superate;
l’olio di argan sui capelli è la svolta;
puoi trovare persone simili a te nei posti più inaspettati;
Vinted è “top”;
non ha senso apparecchiare la tavola per chi sai non verrà mai a cena;
il corpo sa tutto;
l’importanza della limpidezza nel dire e dirsi cosa si pensa, cosa si vuole, cosa si prova;
spesso le nostre richieste riflettono involontariamente un giudizio sugli altri che può farli stare male: facciamoci caso;
il passaggio alla fase “okay, ora devo imparare a vestirmi da adulta e in modo formale” può essere un “dramma”;
imparare a leggere la composizione dei vestiti è essenziale;
la memoria mentale di certe ferite è difficile da contrastare, ma è importante lavorarci;
quando tua sorella è felice, la tua felicità è cosa semplice;
bisogna farsi tenerezza;
se sussurri ad Alexa, ti sussurra a sua volta;
se scatti una foto con una macchina analogica e senza essere sicura che venga bene, quel momento, che hai “scattato”, lo ricorderai in modo inaspettato;
formaggio + marron glacé: che bontà.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Ed io ti dico “grazie”. Perché di queste parole avevo proprio un gran bisogno ♥️ sei una meraviglia.