LA CRONOLOGIA DELL’ ACQUA — Lidia Yuknavitch
(Ed. nottetempo, traduzione di Alessandra Castellazzi)
"Esistono molti modi di annegare."
Delle volte, ci si annega da soli. È anche questo che racconta Lidia nel suo romanzo, di tutti i modi in cui si è annegata, perché era l'unico modo che aveva per restare a galla: annegare parti di sé, tramortirle, perché troppo pesanti, tanto da affondarla.
Esistono tanti fondi, però. E quando cerchiamo di scappare da uno, rischiamo di arredarne un altro.
Ma questo libro non è "sui padri e sul nuoto e sulle scopate e sui neonati morti e l'annegare" , è molto di più.
È sull'arte, sulla metamorfosi che amare qualcosa può comportare, su come la "famiglia" non sia necessariamente quella di sangue, perché la vita può darci altri padri, altre madri e fratelli; è sulla sorellanza, sull'importanza di chi traccia un percorso prima di te, su quell'"egoismo", perché ti mostra una via.
Questo libro è un crescendo: lo divori e ti divora. La scrittura - di "immagini, frammenti e brani lirici non lineari", così come lo è la vita e l'acqua -, una scrittura che non risparmia niente e nessuno, è intessuta con la congiunzione "e", capace splendidamente di dare un'idea, quella della vita di Lidia, di quello che sente: infinite onde, che si susseguono una dopo l'altra, in una continua ricerca di tregua.
Gli ultimi capitoli sono questo, sono onde che trovano una riva. Su quella riva, Lidia impara a vivere sulla terraferma: l'acqua non è più un rifugio, un mezzo per scappare, l'unica via per "essere", abbandonandovi la propria vita, ma una parte di lei da condividere.
"Ma cose splendide. Cose piene di grazia. Cose speranzose possono a volte apparire in luoghi oscuri.": è questo il messaggio di questo memoir, che la vita può portarti a uccidere un tuo io per accoglierne un altro, ma che per quante volte moriamo, ce ne sono altrettante in cui possiamo rinascere.
DIARIO DI UN DOLORE — C.S. Lewis
(Ed. Adelphi, traduzione di Anna Ravano)
"Hai mai saputo, cara, quanto ti sei portata via andandotene?"
Dopo la morte della moglie, C.S. Lewis prende dei quaderni vuoti che aveva in casa e incomincia a scrivere, scrivere del suo dolore, dei "sintomi" che prova, e in un certo senso pensa. Così, nell'intento quasi scientifico di descrivere il suo stato di afflizione, si rende conto che essa è, invece, un "processo": questo libro è una finestra su alcune sue tappe, tappe familiari a qualsiasi lettore abbia conosciuto un'improvvisa assenza, un repentino e drastico cambiamento emotivo, di quelli da togliere il fiato, un lutto in senso figurato e non. Uno strappo.
"È l'atto di vivere che è diverso in ogni momento. La sua assenza è come il cielo: si estende sopra ogni cosa."
"Credo di cominciare a capire perché nel dolore di un lutto ci si sente come sospesi, in tensione: è per la frustrazione di tutti quegli impulsi che erano diventati abitudini. Pensieri, sentimenti, azioni, tutti, costantemente, avevano come oggetto H. Adesso il loro bersaglio non ce più. Continuo a incoccare una freccia per forza di abitudine; poi mi ricordo, e devo mettere giù l'arco. Quante strade portano il pensiero a H. Ne prendo una, ma ora è sbarrata da un posto di blocco insormontabile."
Dopo un evento così, che segna una linea di demarcazione, l'autore sa che nulla sarà più come prima: come dopo un'amputazione, si muoverà con le stampelle e con una gamba di legno, ma non sarà più "bipede". Eppure si coglie in queste poche pagine come il dolore, che spesso ed eppure, come continue onde, "butta giù", non sia una spirale destinata a scendere inesorabilmente, ma richieda un assestamento, di corpo, mente e cuore, un loro nuovo allineamento per continuare non solo a funzionare, ma a vivere, faticosissimo. E destinato a crollare ogni tanto, sotto qualche onda troppo forte.
In quel momento, si scopre anche "castello di carta" la fede in Dio da parte dell'autore. O, forse, direi che si scopre "umana", non inscalfibile.
"E intanto, dove è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più inquietanti."
Da qui, una serie di riflessioni che non vogliono insegnare o dare risposte, ma che si pongono come parte di un dialogo, sofferto ma anche stimolante, e a tratti filosofico, sulla fede quando la "morte" ci tocca così da vicino da cambiare ogni cosa e su Dio, il suo ruolo.
Questa è una delle citazioni che mi ha stupito di più, sia per l'uso della metafora, così semplice e familiare, che per il significato, ovvio se vogliamo, ma forse per questo spesso non colto, che racchiude: "Che cosa vogliono dire quelli che proclamano: « Non ho paura di Dio, perché so che è buono »? Non sono mai stati da un dentista?"
Mi ha fatto pensare all'amore, all'aprirsi ad esso e alla vita, al "prezzo" che si paga, che si può pagare.
E, come in una relazione di affetto e d'amore, non bisogna idealizzare l'altra persona e, spesso, ci si ritrova a fare i conti con le differenze tra l'immagine, il ritratto che noi avevamo costruito e la realtà, così l'autore sembra interrogarsi negli stessi termini sulla figura di Dio.
Questo libricino racchiude tanto, è una lama piccola ma appuntita, che ti colpisce sia per la mancanza che trasuda che per l'inevitabilità dell'esperienza; come un bisturi, e direi ogni libro, può anche, però, curare in qualche modo.
TUTTO QUELLO CHE SO SULL’ AMORE — Dolly Alderton
(Ed. Rizzoli, traduzione di Veronica Raimo)
Lo ammetto: sono rimasta un po' delusa. Ripensandoci, però, forse ho dato a questo libro troppe "responsabilità", carica di aspettative: non mi sono messa in ascolto, ma gli ho chiesto insistentemente una risposta. Alla fine, mi ha fatto ridere, riflettere, mi ha stretto il cuore e quando le parole riescono a fare questo, non è mai poco.
Penso sia stato lo stile e il non potermi immedesimare nella vita dell'autrice a creare quella patina di distacco che non mi ha permesso di sentire questo libro scorrermi dentro, come avevo sperato.
Come ho letto in un'altra recensione, lo stile è giornalistico e, se alcune volte l'ho trovato incalzante e mi ha fatta sorridere, in altre mi è sembrato un po' costruito, a tratti "ridondante" - i capitoli che riportavano le mail, ad esempio, avrei voluto saltarli. Mi piace l'ironia, poi, ma la preferisco quando è più "dosata".
Se poi in alcuni pensieri di Dolly mi sono rivista moltissimo e anche in alcune, precise, esperienze, in moltissime no e, percorrendo il libro tantissimi anni di vita, alcune volte mi sono sentita un po' "confusa", come se mi mancassero dei "pezzi" per entrare a fondo nella storia.
Questa non è però una "storia", ma parte di vita e forse una delle verità che più trasmette, mostra, questo libro è che si "credono tante cose", si fanno programmi e si immagina sempre una specie di ordine nel vivere, non solo "da seguire", ma che si seguirà sicuramente, e poi? E poi non è mai così, o almeno non lo è nella maggior parte dei casi. E quella sensazione di sentirsi persi, se ci si sente così, si può provare anche dopo una giovinezza trascorsa come Dolly o dopo averne vissuta una con (non) esperienze completamente diverse.
E adesso che scrivo, mi rendo conto che mi aspettavo da questa lettura una "soluzione" per questo sentimento, una sorta di epilogo sereno. Invece è una amica che ti abbraccia. Siamo così affamati di risposte a volte, che non viviamo il presente e non lo capiamo, e non ci capiamo; questo può avvenire anche quando leggiamo un libro, oltre che nella vita: ad un certo punto c'è un vuoto che si fa aspirapolvere, che trattiene ogni cosa per colmarsi, ma in un certo senso la distrugge anche, non sentendosi mai pieno. E non la vede, non la realizza.
Sono quindi contenta che Dolly abbia poi realizzato la fortuna di tutte le cose che sa dell'amore. Tra queste, i bellissimi modi in cui si snocciola, cresce ed evolve l'amicizia. La fortuna di averla vissuta e viverla in modo così autentico.
Il capitolo sui "trent'anni" è stato impegnativo: mi avvicino a quel traguardo con lo stesso animo con cui lo ha fatto Dolly. Questo mi ha fatto riflettere sulla domanda: a quale range di età consiglierei questa lettura? Io avrei voluto leggerlo molto prima, perché è bello sentirsi capiti, ma trovare delle riflessioni che ti possano aiutare a porti le domande giuste, invece di affannarti di risposte fasulle, penso sia un regalo.
«A volte può sembrare che la vita sia difficile, ma in realtà è davvero semplice, come inspirare ed espirare. Lacera i cuori con furia e abbatti l'ego con la modestia. Sii la persona che vorresti essere, non la persona che pensi di dover essere. Sentiti libera di seguire i tuoi sentimenti. Sei stata creata perché qualcuno possa amarti. Lascia che ti amino.»
— Florence Kleiner
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).