Un libro e una falena.
“Non ucciderla!”
Non ucciderla, le dico.
“È attratta dalla luce”, risponde a vuoto. Mentre la falena, affamata, si getta verso il faretto della cucina.
Si avvicina così tanto che sembra che lo prenda a testate.
Mia madre spegne quella luce, tentando di farla muovere. Lei continua a sbattere le ali e la sua fame la sposta, verso un’altra fonte luminosa.
Sento quell’inquietudine mia. Posso sentirla così vicino che quasi l’aria si sposta dentro il mio cuore. Come se avessi nel torace un nido di falene.
Agitata, batte le sue ali freneticamente, spostandosi di luce in luce, in una continua ricerca le cui tappe sono in mano a qualcun altro, pedina di un gioco potenzialmente infinito.
Sarà così stanca. Non ha tregua.
Si avvicina a una lampadina ed è come se fosse respinta e io non posso fare a meno di domandarmi se le falene non siano tutte figlie di Icaro, condannate per una regola del contrappasso, a voler raggiungere, ostinate, qualcosa che farà loro del male.
E un po’ figlia di Icaro io mi ci sento e forse lo siamo un po’ tutti, quando ci ostiniamo a volere qualcosa che poi ci ferisce.
Mia madre prende un contenitore di plastica e riesce a farla entrare.
Sbatacchia le ali, ancora e ancora. E poi si ferma. Esausta.
Solo in prigione, si consente di fermarsi.
Mi ricorda un’infinità di momenti, quell’immobilismo pieno di paura e dolore, ma che fa riposare e dove la prigione sono tutti quei modi in cui il tuo corpo e la tua mente dicono “ora basta”.
Chissà se impareremo mai, falena. A dire basta, a dirci basta.
La portiamo alla finestra, togliamo il coperchio e in un secondo si è buttata, si è lanciata nella sera, nel buio.
Un animale notturno, destinato a ricercare sempre una fonte di luce.
Mi chiedo se vorrebbe essere un altro tipo di farfalla anche lei.
L’ERA DELLA DOPAMINA — Anna Lembke
(Ed. ROIEDIZIONI, traduzione di Massimo Simone e Raffaella Voi)
Cerchiamo di capire come funzionano i muscoli, per allenarli e raggiungere i nostri obbiettivi. Ci chiediamo quali cibi mangiare per fare sì che il nostro corpo sia in salute sino al domandarci e a studiare quali colori, nel vestire, ci valorizzino. Stiamo iniziando a capire l’importanza dell’ascoltare le nostre emozioni e del decifrarle. E la mente? Non è importante capire come funziona, non può essere un aiuto?
È un campo di scienza vastissimo, complicato in un modo che non riesco neanche a immaginare e che forse, a volte, tendiamo a considerare “precluso”, perché “non siamo del mestiere”. Eppure “come funziona la nostra mente” lo considera chi scrive pubblicità, chi realizza app. Può essere spaventoso rendersi conto di quanto siamo “macchine” a volte, nel senso di un gioco di azioni e reazioni, tutti fatti “allo stesso modo”, ma è anche qualcosa di affascinante e di aiuto, come se avessimo un libretto di istruzioni per funzionare al meglio, che però dobbiamo conoscere - e questa forse è la vera libertà: comprenderci per indirizzarci dove vogliamo e non dove “vogliono”. Capire come funziona il volante, per portarci dove desideriamo.
È per questo motivo che trovo le neuroscienze così interessanti e piene di attrattiva. Ovviamente, se non si sono fatti determinati studi, può essere difficile comprenderle; Andrew D. Huberman, professore di neurobiologia nell’Università di Stanford, ha un canale YouTube dove spiega in modo semplice, ma dettagliato “come funzioniamo” per certi aspetti: in uno dei suoi video, ha consigliato questo libro e così l’ho preso, “a scatola chiusa” - lo ammetto, ansiosa di imparare. E spero proprio che sia il primo di tanti.
Come si intuisce dal titolo, questo libro tratta in modo chiaro e accessibile a tutti del rapporto del ruolo della dopamina nelle dipendenze: l’autrice alterna momenti di spiegazione a racconti pratici derivanti dalla sua esperienza clinica nonché dalla sua vita.
Le vicissitudini e i dolori dei suoi pazienti sono una finestra sull’umanità e la sua fragilità. Ho preferito le parti più scientifiche, ma perché era per quelle che ho iniziato la lettura e di cui ero più “affamata”.
Avrei dato tre stelle, perché alcune affermazioni dell’autrice mi hanno lasciata un po’ “così”, ma in questo libro lei si pone non solo come terapista, ma anche come persona, una persona come ognuno di noi e quindi il pensare “però non dovrebbe forse dire queste cose da terapista” (non intendo i momenti in cui mostra la sua umanità) non ha molto senso: è per questo che ho dato quattro stelle a questa lettura, ed anche per il coraggio con cui si è aperta raccontando di lei, quando avrebbe potuto non farlo.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).