Lo scorso sabato “ho fatto una cosa”.
Questa.
Ho lasciato su una panchina un libro, con una cartolina. Ho scattato una foto e poi ho sussurrato “Vai, buona vita.” e l’ho lasciato andare.
“Caro sconosciuto/cara sconosciuta,
spero di averti incuriosito.
La mia storia è iniziata pochi giorni fa, quando sono diventato un “libro errante” destinato a passare di mano in mano per essere letto, unendo con un filo di parole le strade, e le storie, di tanti.
Le regole sono semplici: se sei davvero interessato, prendimi, portami con te e leggimi; poi, affidami al destino, lasciandomi in qualche luogo pubblico, dopo aver scritto il tuo nome e la data (e, se vuoi, scatta una fotografia e tagga #librisensibilierranti — così possiamo “trovarci”), nonché il luogo.
Mi raccomando, ricorda che è un affido temporaneo e trattami con cura.
Con affetto,
“Canto di Natale” e la sua prima lettrice, @sensibilandia.”
Ho sempre voluto affidare un libro al destino o a qualsiasi corrente faccia sì che certe cose accadano e altre no, che una persona decida di allungare la strada, o di farne un’altra, o che si ritrovi a farlo — perché magari è al telefono e non si è resa conto di non aver svoltato o perché è immersa nei suoi pensieri (“Cosa cucinare alla Vigilia?” “Non vedo l’ora di mettermi in pigiama e finire quel saggio.” “Qual è, con esattezza, la funzione di una papera di gomma?”*), e percorre così una piazzetta dove c’è una panchina su cui, nota (per caso, per destino, per qualsiasi cosa “ci guidi o ci distrugga”), è stato lasciato qualcosa. E si avvicina. E decida, magari, di tentare.
“A volte sono i libri a trovarci”: a voi non è mai capitato? L’anno scorso mi è successo con “Vite che non sono la mia” di Emmanuel Carrère; quest’anno, indubbiamente, con “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara; lo sapete, per me, le parole sono “liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.”
Mi piace l’idea di metterle in circolo, di aiutarle nella loro missione di trovare chi ha bisogno di essere letto.
[*Se avete colto la citazione, vi voglio un po’ bene.]
CANTO DI NATALE — Charles Dickens
Ho scelto “Canto di Natale” di Charles Dickens per diverse ragioni: certo, si sposa perfettamente con il periodo dell’anno che stiamo vivendo, ma soprattutto è un libro che è in grado di parlare sia ai bambini che agli adulti, un libro che, nella sua semplicità di netti chiaroscuri, si fa espressione di un messaggio tanto profondo quanto spesso dimenticato.
Lo spirito del Natale come il Sabato del villaggio.
Avrei voluto leggero per la prima volta da bambina, perché, leggendolo, un po' torni ad esserlo, quindi posso immaginare come sarebbe stato; avrei "sentito di più" il dialogo con l'autore — reso possibile dallo stile narrativo, come se questo fosse stato davvero accanto a me a raccontarmi una favola, e sarei stata coinvolta di più dall'intenzionale esagerazione di certi lati del carattere dati ai personaggi, perché, magari, non li avrei trovati non realistici (prescindendo dalla finalità che ha questo aspetto e che ben combacia con quella dell'opera). Avrei, così, colto subito e solo, dato l'età, il messaggio immediato di questa lettura, grazie anche alla portentosa capacità evocativa di Dickens — con elenchi, talvolta, anche troppo lunghi per i miei gusti, come se l'autore non volesse farti mancare alcun dettaglio: quello che è lo spirito del Natale, quanto anche i piccoli gesti di generosità possano fare la differenza, l'importanza che chi ha di più aiuti chi ne ha bisogno e non solo dal punto di vista materiale.
Questo direi che è il messaggio morale, insieme ad altri, che cogli leggendo la "favola"; c'è la presa di consapevolezza di Scoorge, il suo pentimento e il voler essere diverso e così il riuscirci e, dunque, il lieto fine. Il protagonista ha imparato.
In questo modo, Dickens riesce a raggiungere tutti, con uno stile fluido, divertente, capace di intrattenerti: penso che la lunghezza del libro sia perfetta, che anche solo un capitolo in più avrebbe potuto alterare l'equilibrio che si crea grazie a questa rapidità di narrazione; c'è chiarezza e, come in ogni favola che si rispetti, il messaggio è limpido, pur non essendo trascritto letteralmente.
Avrei voluto leggerlo da bambina, appunto, perché sarebbe stato diverso. Un po' come da bambini si sente di più il Natale, lo si sente, anzi, in modo diverso. Ma il Natale rimane sempre Natale, anche crescendo, anche se si arricchisce di significati che a noi sembrano sempre impoverirlo e magari un po’ è così o, forse, è la vita che, con il tempo, nel suo flusso di passato/presente/futuro — che questo mese è il nostro protagonista —, ci rende inevitabilmente lettori più consapevoli e capaci di sentire le sfumature che vanno oltre la patina della magia, in un certo senso anche “inquinandola”: e infatti il prezzo da pagare sono le “dimensioni”, le porte emotive che sentiamo, il non vivere solo il bianco e il nero, e quindi anche il vedere la magia del Natale, ma il capirne il trucco, o la formula magica, che c’è dietro e che da bambini vivevamo come sola dimensione.
Ma forse è proprio questo, pensavo, a farci capire davvero il senso del Natale o a invitarci a farlo: al di là della frenesia che può accompagnarlo, arriva sempre un momento di questo periodo che si fa cucchiaino, come se noi fossimo un barattolo di qualcosa di dolce, pronto a scavarci; è quel momento in cui ti fermi un attimo e il Natale si spoglia di quelle che sono le tradizioni che portiamo avanti, della lista dei regali, di quella degli impegni e ci appare, quasi vulnerabile, quello che è: multiforme nelle sue dimensioni, impregnate anche di ricordi, di posti vuoti a tavola, di tutte quelle sfumature, ma così anche testimonianza della verità, che sì, il tempo passa, ma è la condivisione di quel tempo che fa la differenza, la fortuna di poterlo fare e la narrazione che possiamo dargli — che non potrà più essere una favola, magari, ma che, se siamo fortunati, grati di questo e consapevoli, possiamo (ac)cogliere con lo stesso cuore. E magari, così, torniamo almeno a scorgere quella porta emotiva che da bambini spalancavamo: può tornare la magia, anche se sotto altre vesti.
Sul fondo del barattolo c’è questo: nei chiaroscuri della vita, l’ “accanto” è un posto bellissimo e il Natale celebra anche questa fortuna ed è un invito a condividerla.
E in un mondo in cui la narrazione comune vuole che sia sempre tutto brillante, forse dobbiamo capire che è davvero questa la patina da sconfiggere perché il senso del Natale non è che sia tutto perfetto, ma che, anche quando non lo è, tu possa voltarti e trovare accanto qualcuno. Così come nella vita, nella inevitabile moltitudine di dimensioni che è, questo è un regalo.
Sono le luci nei chiaroscuri.
Così, questo libro “da aduli” si fa cogliere in altre dimensioni.
Ed infatti il dialogo lo trovi geniale e divertente — come se Dickens, avendo in mente un lettore adulto, un po' volesse quasi prenderlo in giro — e l'esagerazione, da un lato e dall'altro, di certi aspetti caratteriali dei protagonisti risulta perfetta per tutti i fini sottesi. Questa permette quello che Orwell, commentando l'opera, chiama, secondo me, "contrasto": i personaggi non sembrano avere luci e ombre, ma questo non per mancanza di capacità narrativa, ma per permettere di identificare e ben trasmettere i sentimenti delle parti — Scoorge è scontroso, avaro anche nel dare una parola di conforto, quasi infastidito da chi lo fa, perché per lui sono tutte "sciocchezze", ma, ovviamente, non è dato da sapere psicologicamente perché; il suo impiegato è gentile, pur in numerose difficoltà, pur nella morte del figlio, pronto a vederci un insegnamento positivo — ed è proprio questa mancanza di realismo, se vogliamo, a veicolare perfettamente l'invito alla generosità, perché è facile capire cosa è buono.
Così come è questa a rendere realista l'atmosfera natalizia che sembra insinuarsi nella narrazione, fare da sfondo, quando poi è la protagonista: Orwell scrive "I Cratchit riescono a godersi il Natale proprio perché viene solo una volta all'anno. La loro felicità è convincente perché è descritta come provvisoria.”; il contrasto tra la povertà di tutti i giorni e una tavola imbandita, dopo sacrifici, a Natale; quell'essere grati e voler condividere questa gratitudine. L'importanza delle "sciocchezze" che rende Natale, il periodo natalizio tutto, "speciale", che lo rende quel giorno che viene solo una volta all'anno. Che regala sensazioni provvisorie, perché solo una volta all'anno vengono in modo così definito, così esagerato. Il Natale stesso è una “esagerazione”, un invito ad essa, della bontà: "A Natale puoi", "A Natale siamo tutti più buoni".
E forse è il proprio il cogliere tutte le dimensioni del Natale, tutti i suoi chiaroscuri sfumati — così diversi da quelli netti che in questo libro traspaiono —, a cui, abbandonando l’infanzia, siamo tutti destinati, che ci fa sentire la necessità di evidenziarne le luci.
Oltre a questo, però, a quelle luci dobbiamo essere in grado di dare il giusto significato. O rimangono solo luci, vestendo l’apparenza.
Come Scoorge e il suo impiegato avrebbero luci e ombre nella realtà, così lo spirito natalizio, dovrebbe essere conservato sempre, anche nelle sue più blande dimostrazioni e mai vivendo nell’apparenza. E questo Dickens ce lo dice in modo irrealistico e semplice, perché si faccia, invece, cosa viva e reale.
Ed è “questo Natale” che auguro a tutti voi.
Non è Natale che fa lo spirito natalizio, ma questo che crea il Natale. Come la vera domenica è il sabato del Villaggio.
Una menzione speciale alle metafore che usa Dickens, alcune di una tenerezza e bellezza incredibile.
“Consiglio della settimana” (versione polaroid) — A David Attenborough ho accennato, parlando di un suo documentario, nel “tema sensibile” del mese di settembre, dedicato alla sostenibilità ambientale; Valentina — che potete leggere qui, una delle amiche che la realtà virtuale mi ha regalato, una delle sue “cose belle” come dico sempre, ha letto un suo saggio e non potevo non lasciarvi qui la sua impressione, di cui mi fido molto.
“Cose belle” (versione polaroid) —
“[…] L’emendamento appena approvato prevede:
il divieto di allevare, fare riprodurre in cattività, catturare e uccidere visoni, volpi, cani procione, cincilla e animali di qualsiasi specie per ricavarne pelliccia […]”
Una “polaroid sensibile”.
“[…] Trovo, spesso, i tramonti tristi.
Forse perché vi sento tutto il morire del giorno, il suo scivolare via in sfumature, come nel sonno, come l’acqua della doccia nello scarico, come strisce di sangue nel cotone. Un catturarsi inevitabile.
Vi riconosco la stessa sensazione della domenica sera. […]”
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).
Buon Natale, questa volta
e un abbraccio stretto, come sempre.