Chiara Gamberale chiede a Selin e Gianrico Carofiglio risponde.
Cose "simpatiche", come direbbe mio zio.
Questo mese trascorso — che, come ogni gennaio, sembra essere durato una vita — mi è successa una cosa “peculiare” (mio zio direbbe “simpatica”): ho letto solo libri della casa editrice Einaudi. Non è un qualcosa a cui ho mai fatto caso, di quale editore fossero i libri che stavo leggendo, ma questo mese è capitato: quando li ho visti sul comodino, me ne sono resa conto.
”L’idiota” di Elif Batuman, “L’elogio dell’ignoranza e dell’errore” di Gianrico Carofiglio, “Dimmi di te” di Chiara Gamberale.
Così, mi sono accorta di un’altra “cosa simpatica”: in un certo senso, ognuno di quei libri pone una domanda a cui l’altro può rispondere.
Immagino Chiara Gamberale che incontra Selin, la protagonista del romanzo di Elif Batuman, una volta divenuta “una quarantenne”, e che le dice “Dimmi di te”, che le domanda “Come sei cresciuta?”.
Come hai fatto a crescere? A crescere mantenendoti intera. A crescere e trovare pace in quello che sei diventata, a scendere a patti con ciò che crescere vuol dire, a perdonarti, a continuare a sperare — come hai fatto?
E allora Selin ripenserebbe a quando aveva 18 anni e si era iscritta al suo primo anno di università, alla “sensazione” che provava allora, al suo rapporto con un ragazzo di nome Ivan, alla sua contrapposizione con la sua amica Svetlana — “L’idiota” di Elif Batuman racconta delle giornate di Selin, ordinarie, dei suoi pensieri, delle domande che si pone; nel suo modo di comunicare con Ivan, per lo più a distanza e attraverso citazioni o riferendosi cose molto banali, si racchiude una metafora che il romanzo riesce a rendere davvero bene: essere giovani, aggrapparsi a quello che si studia, a quello che si “sa”, per raccontarsi e definirsi, per cercare di capire la realtà, ma nel profondo sentire uno smarrimento, rappresentato dai momenti del “non so cosa dire”, da quelli di disillusione, dalle emozioni contrastanti. Uno smarrimento che, alla fine, è di tutti e a cui ognuno reagisce in modo diverso — a differenza di Selin, Svetlana reagisce a questa sua fase della vita iperanalizzando ogni cosa, finché non pensa di averla capita per poterla così “incasellare”.
Uno smarrimento che pensi che “quando sarai grande” non proverai più, perché crescere vuol dire trovare corrispondenza, no? Trovare della terraferma. Perché quando sarai grande capirai. Cosa risponderebbe Selin, Selin adulta, Selin “cresciuta”, a Chiara Gamberale?
Dove la metti la nostalgia per tutto quello che è stato e dove metti la nostalgia
per tutto quello che non è stato, ma avrebbe potuto essere,
solo che ormai si è fatto tardi?
Dimmi di te.
Non lo posso sapere, ma forse, anche dal dialogo con lei, come da quello con Raffaello, Ivan, Riccarda, Cate, Paloma, Stefano — quelle persone che l’autrice di “Dimmi di te”, in quella fase della vita dove ti dicono “quando sarai grande capirai”, era sicura che l’avrebbero capito un giorno quel che c’era da capire (come riuscivano, lei ne era convinta, trovare corrispondenza nell’età che stavano vivendo allora) — coglierebbe come, alla fine, ognuno di noi continui a cercare di capire, anche nella vita adulta, come si aggrappi a quello che ha capito, come sopravviva a quello che ha capito.
Mi immagino Selin pensare a Svetlana, a come lei fosse convinta che la sua amica avesse “capito tutto”, a differenza sua; forse come Chiara Gamberale davanti alle sue “stelle polari” di quando era giovane, Selin imparerebbe la prospettiva: i suoi “idoli” avevano davvero capito ogni cosa all’epoca? Quel ragazzo, o quella ragazza, che le sembrava perfetto, quale era la sua prospettiva? E cosa si è snodato da quella sua stessa prospettiva nella sua vita?
“Dimmi di te” è una frase che, se detta autenticamente, è potentissima. È tra le basi di ogni tipo di relazione, ed eppure mantenerla in equilibrio tra le parti può essere difficile — Eri tu che dovevi prendertelo o ero io che dovevo dartelo, il permesso di rimanere te, nonostante noi?
Ed è difficile anche crescere perché vuol dire, alla fine, entrare in contatto con quella vocina che la sera sentiamo solo noi e che ci responsabilizza — forse ci dice anche lei “dimmi di te” —, quella vocina che mette in “pausa” la frenesia della vita e ci chiede se la sentiamo la corrispondenza con quella vita, e se abbiamo intenzione di fare qualcosa al riguardo, se la risposta dovesse essere negativa.
Una vocina che è una bussola senza destinazione, ma è pur sempre una bussola.
Quella stessa vocina che disorientava Selin.
Come sentire quella vocina in mezzo al trambusto del mondo? Come risponderle? Anche sbagliando — crescere vuol dire necessariamente anche sbagliare.
”Elogio dell’ignoranza e dell’errore” di Gianrico Carofiglio è una riflessione capace di dare un contenuto pensato, posato e interessante alla frase fatta “sbagliando, si impara”.
Sullo sfondo una grande verità: se hai la fortuna (in una sua accezione) di poterlo fare, vivi, esplora, buttati, sperimenta, impara così a identificare le occasioni, allenati a non lasciarti immobilizzare dalla paura di sbagliare.
Dagli errori, sono nate tante scoperte scientifiche; dall’allontanarsi da idee precostituite e dallo sperimentare, carriere di successo.
Dallo sbagliare, quindi, nasce la vita, dal riconoscere i propri errori e cercare di capire cosa vogliono dire, e come “migliorare”, forse si snoda una vita che può renderci più felici, sicuramente più empatici e aperti mentalmente.
Ma bisogna imparare a farlo e in una società come la nostra, dove bisogna avere una opinione su tutto, e corretta (perché l’ignoranza è una brutta cosa), essere impeccabili esteticamente e dove l’imperfezione si toglie con un click o si nasconde con un filtro — dove il nostro occhio sta imparando a vedere l’errore come una nota fuori posto che non corrisponde a quello che ci si aspetta e da cancellare — penso che occorra partire dalla scuola: in quello stesso contesto dove gli insegnanti pretendono certe e specifiche risposte, dove c’è un “giusto e sbagliato”, bisognerebbe insegnare il ruolo dell’errore, del mettersi in dubbio, insegnare ai ragazzi e alle ragazze come far fronte al “non sapere”; insegnare così, a stare nell’incertezza, senza che questa imprigioni.
Non è un caso che Selin si senta così smarrita proprio quando si affaccia all’università, che senta cedere sotto i suoi piedi le coordinate di un sistema dove “c’è una risposta corretta per ogni domanda”.
Buttati Selin, buttati nella vita per crescere.
Così, alla domanda “Tu, come hai fatto a crescere? Come hai fatto a tenere insieme quello che ti fa splendere e quello che ti consuma, a scegliere, a puntare tutto solo su quel momento, su quell’incontro?” potrebbe rispondere raccontando anche di quelle volte in cui ha sbagliato, andando a tentativi.
Ancora una volta, trovo la conferma che conoscersi il più possibile è la chiave, per proteggere ciò che ci fa stare bene, nella tempesta di tutto quello che può capitare, perché la vita è imprevedibile e non si può controllare ogni cosa.
Ancora una volta, penso che occorra farsi tanta tenerezza.
Per la prima volta, invece, mi chiedo se crescere, alla fine, non sia un atto di fede.
Del crescere avevo parlato anche qui: