“Ma sono felice.”
Ascoltavo l’audio della mia amica, la sua voce incrinarsi. Potevo sentire i suoi occhi pizzicare. In quella voce rotta di pianto, che lei temeva potesse rendere “assurda” la sua affermazione, io vi leggevo invece la pura e grezza autenticità di un aspetto della vita: crescere è difficile.
Può essere bello, ma questo non esclude che sia difficile.
“Forse è perché non se ne parla.” Forse è per questo che ci sentiamo di dover spiegare perché soffriamo, anche quando stiamo per iniziare un nuovo capitolo tanto desiderato della vita e ne concludiamo un altro.
Forse è perché la narrazione a cui siamo abituati è in stile Friends (?). O, forse, per qualcosa che ancora mi sfugge.
Il giorno dopo che mi sono laureata, ho pianto tantissimo. E non riuscivo a smettere. Un “bolo” di lacrime in gola. Anzi, uno dietro l’altro. E non capivo perché. O meglio, io lo sapevo, ma era come se la mia mente non lo accettasse, lo considerasse “assurdo” e mi dicesse: dopo averlo voluto così tanto, davvero?
Ricordo che dissi “neanche fossi incinta”. Si dice che la laurea è un parto, e insomma un po’ lo è, ma non sino a questo punto: oppure sì? Forse ogni cosa tanto attesa e voluta, ma che segna una demarcazione, un inizio e una fine, una incognita, può esserlo.
Mi viene in mente anche la narrazione che spesso si fa della gravidanza e a quanto possa essere diversa dalla realtà — un altro aspetto sociale di cui si dovrebbe parlare di più.
E forse, pensavo, non si parla abbastanza neanche della fatica. Anche quando impariamo qualcosa, tendiamo a condividere la “lezione imparata”, come se fosse un bigliettino di un bacio perugina caduto dal cielo, una “frase fatta”, da mettere in vetrina: in questa stessa vetrina ci vede, così, chi ci ascolta. Lontani.
Eppure, più mi guardo attorno, più mi accorgo che siamo tutti così dispersi in questa vita da adulti o quasi adulti e inizio a pensare, in un certo senso a temere, che questa sensazione ci sarà sempre: una sorta di spaesamento, forse intervallato da qualche paese che, invece, è casa. È base.
“Quando sarai grande capirai.”
Capirai che a cambiare sono le domande, che la consapevolezza non ti libera dalla tristezza (anzi) e che fare un compromesso tra tutte le risposte che puoi dare, al netto delle possibilità e delle responsabilità, è un lavoro a tempo pieno. A cui nessuno ti prepara.
Quando ho accompagnato mia sorella a cercare il suo abito da sposa, aveva una precisa “idea in testa”: un modello di abito che si era sempre immaginata, che aveva trovato anche online e visto su diverse modelle. Il suo abito da sposa è stato, poi, “tutt’altra cosa” - ed è stato anche un caso che quel giorno l’abbia provato: se ne è innamorata subito.
Delle volte, spendiamo così tanto tempo, anche anni, a immaginare come sarà la nostra vita tanto che diventa quasi la chiave della felicità “della vita adulta” nella nostra testa: siamo certi che in quell’abito staremo “alla grande” e, per alcuni aspetti, è anche la stessa società a dircelo. E poi? E poi, anche se non sempre, qualcosa non funziona: nel corso del tempo, in cui quel “come” da raggiungere è sempre stato la stesso, abbiamo imparato, imparato cose di noi e cose del mondo, a cosa siamo disposti e a cosa no, ciò di cui abbiamo bisogno e tantissimi altri aspetti, sicché quel “come” non veste così bene come avevamo sempre creduto.
Crescere è difficile. Perché vallo a dire al cervello che, alcune volte, quello che pensiamo di volere non ci rispecchia più, che “va bene”, che è normale. Perché si cresce.
Perché in un mondo dove siamo tartassati di risultati raggiunti, quello spaesamento della vita adulta sembra un errore. Quello spaesamento di quando quello che avevi sempre pensato “è diverso da come te lo eri immaginato”, assieme alle domande e ai dubbi che questo comporta, sembra un’eccezione. Un buco nero dove sei finit* solo tu. Una zuppa in cui tu sei una forchetta allo sbaraglio.
Nel corso della nostra istruzione, siamo invitati a sapere, a domandarci e a rispondere in modo “corretto”, a risolvere formule matematiche e a capire come funziona il mondo. A leggere capolavori di diversi autori. Dante ha scritto la Divina Commedia: vorrei sapere quanta fatica ha fatto e se qualche mattina si è svegliato e ha detto “non ho voglia”; sapere la costanza che deve aver tenuto, cosa gli è costato.
Ci poniamo, sì, delle domande, invitati alla curiosità: spesso, però, sono domande rivolte all’esterno e non all’interno. Cosa pensi di…? E, bene o male, il nostro ragionamento, se non condivisibile personalmente da altri, può essere “sensato” o meno.
Insomma, c’è un feedback. E quasi sempre immediato. Vai a fine libro e scopri se la tua risposta è corretta, ricevi un voto. Hai, appunto, un feedback in grado di farti capire qualcosa.
Quando ti affacci alla vita adulta, mi sembra che questo manchi, se non del tutto, quasi. O, magari, ne hai uno inaspettato: come ritrovarti a piangere dopo esserti laureata o quando hai preso una scelta che ti rende felice. Procedi a tentoni.
In questo procedere a tentoni, però, non puoi provare tutti i vestiti da sposa del mondo così da scegliere effettivamente quello che più ti piace. Ed eccolo, il compromesso. Quello che, forse, non ti insegnano abbastanza.
Che non è un fallimento, che è faticoso, che comporta una rinuncia, ma che, se indirizzi verso te stess*, è un tassello della tua costruzione. Che fa parte della vita, del darsi delle priorità in un’ottica consapevole, del scegliere. Nel crescere, non puoi più controllare il tuo risultato con quelli a fondo pagina - e tentare di farlo con quello di un tuo “compagno”, in un continuo paragonarsi, è deleterio: “al netto delle tue possibilità e delle responsabilità”, puoi solo seguire la tua bussola interiore in un dialogo che forse, anche tra i banchi di scuola, in quegli anni che “dovrebbero prepararti alla vita adulta”, non è alimentato abbastanza.
In quel “ma sono felice” rotto dal pianto della mia amica ho visto un compromesso riuscito, buono e giusto per lei. Uno di quelli della vita adulta.
Forse è questo a cui guardare.
Cosa sto leggendo — “La sottile arte di fare quello che c***o ti pare” di Mark Manson
“Il mondo ti ripete costantemente che il segreto per una vita migliore è l’aumento — compra di più, possiedi di più, fai di più, scopa di più, sii di più. Sei bombardato di continuo da messaggi che ti impongono di sbatterti per tutto, tutto il tempo. […]
Perché? La mia opinione: perché sbattersi per avere più cose fa bene all’economia. E anche se in questo non c’è nulla di male, il problema è che sbattersi troppo per troppe cose nuoce alla tua salute mentale. Ti rende troppo legato a ciò che è finto e superficiale, ti spinge a dedicare la vita all’inseguimento di un miracolo di felicità e soddisfazione. La chiave per vivere una bella vita non è sbattersi di più; è sbattersi di meno, sbattersi solo per quello che è vero e immediato e importante.”
“Una domanda più interessante, una domanda che la maggior parte della gente non prende mai in considerazione, è: quale dolore vuoi nella tua vita? Per cosa sei disposto a lottare?. Perché questo sembra determinare in modo molto più incisivo quello che diventeranno le nostre vite.”
Il mio primo impatto (di poche pagine) con questo libro mi ha fatto un po’ “storcere il naso”; andando avanti, ho pensato “vale la pena leggerlo”: il risultato di questa lettura penso dipenda molto dal grado di consapevolezza che ognuno di noi ha raggiunto, da quante e, soprattutto, quali domande si pone.
“L’ autoconsapevolezza è come una cipolla. Possiede multipli strati, e più li sbucci, più aumentano le possibilità che inizierai a piangere nei momenti meno appropriati.”
Penso ci sia della verità. Molte volte, è come questa ci viene raccontata che fa la differenza e il “modo per raggiungerci” non è uguale per tutti: qui l’autore sceglie uno stile schietto, senza giri di parole, immediato, anche sfrontato. Questo può infastidire o meno e forse infastidirebbe comunque un libro che ti porta a farti delle “domande scomode”. Alcune volte ti viene da rispondergli “sì vabbè grazie, questo lo so anche io”: non ci si deve fermare a questa “ovvietà”, ma fermarsi a riflettere.
Ecco, a libro non ancora concluso (sono a metà), mi viene da dire questo: i libri di questo genere sono una finestra di riflessione che si può decidere di sfruttare al meglio, anche se non se ne condivide il contenuto.
“Cose belle” — la canzone “buonanotte” di Ernia (per me, una poesia) e questa iniziativa del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, per i suoi 70 anni.
Una ricetta vegana per voi (per la sezione “consigli non richiesti”) —
Torta soffice di pere e cannella (@cucinabotanica)
Ingredienti:
150 g di farina 0
150 g di farina integrale
2 pere
200 g di zucchero di canna
300 g di latte vegetale (io ho usato quello di avena bio)
120 g di olio di semi di girasole
12 g di lievito per dolci
3 cucchiaini di cannella
1/2 cucchiaino di sale
Procedimento:
Preriscaldate il forno a 180° in modalità statica.
Mescolate insieme il latte vegetale, l’olio e 170 g di zucchero; aggiungete poi le due farine, 2 cucchiai di cannella e il sale, sino a creare un composto liscio ed omogeneo: unite, quindi, il lievito e date un’altra mescolata.
Tagliate una pera a cubetti e aggiungeteli nel composto.
Dopo aver versato il composto in una tortiera del diametro di circa 22 centimetri, usate l’altra pera, tagliata a fettine, per creare in superficie la decorazione che preferite.
Terminate cospargendo la torta con lo zucchero e la cannella restanti.
Infornate e cuocete per circa 40 minuti (sino a che la torta non risulterà ben dorata).
Buona domenica
e un abbraccio.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).