Ho sempre amato l’acqua.
Ho fatto il mio primo “bagnetto” in mare a 6 mesi: l’acqua salata della Sardegna e i braccioli più grandi di me. “Facevi il turacciolo”, dice mia madre. C’è una foto che amo che ritrae quel momento.
Per più di un decennio ho fatto nuoto: toccare con la mano il muretto, fare la virata, spingersi con i piedi, e sentirsi scivolare via, per la corsia — una danza silenziosa che unisce controllo e leggerezza, una magia che mi faceva sentire parte di qualcosa.
Ero velocissima, soprattutto a stile libero, e c’era un signore che mi osservava dal bordo — ricordo che quando prendevo aria lo ritrovavo a guardarmi: mi proposero di iniziare a fare pre agonismo; ricordo perché dissi di no, non la ragione, ma la sensazione. L’ho ritrovata in altri “no” della mia vita, alla mia vita. Oggi, quando la riconosco, cerco di trasformarla in “sì”.
Un’altra cosa che amavo della “piscina” era il momento in cui mia madre mi asciugava i capelli: calda di doccia, con la stanchezza che iniziava a farsi sentire e l’aspettativa di un pacchetto di cracker con sopra il sale ad attendermi in auto, raccontavo a mia madre della lezione, di “cosa avevamo fatto oggi”, mentre l’aria del phon mi avvolgeva.
La sensazione delle sue dita tra i capelli — degli anelli che si impigliavano a volte tra le ciocche — è qualcosa che non dimenticherò mai. Riesco ancora a sentire il tocco della sua mano e il senso di leggerezza che provavo con i capelli asciutti. E l’importanza di quel momento, dell’ascolto, che si ripeteva spesso e proteggeva ogni cosa; è strano come alla fine siano i gesti più semplici a ricordarti all’improvviso l’amore e a come, forse, sia proprio il non dargli quel peso, quando li vivi, a renderli così perfetti, perché in grado di trasmetterti l’autenticità del sentimento che li impregna. Senza filtri, senza pensieri.
All’acqua, poi, ho affiancato i libri: i ragionamenti erano un parco giochi da costruire, un’altra danza dove però ho, non so bene quando, dimenticato la leggerezza. Le loro pagine hanno riempito tutta la piscina, impregnandosi sempre di più e portandosi via l’acqua, finché il livello non è stato così basso da fargli toccare il fondo.
Sono tornata in vasca quando dall’acqua pretendevo qualcosa che non riuscivo a darmi, quando oramai non nuotavo più, ma ero in apnea — come si respira? Come respiravi? Rincomincia.
Ho rincominciato anche grazie a quei lunedì, a quei giovedì.
Il richiamo al cloro è stato più forte del costume, del “come faccio se”, di tanti sassi che mi tenevano giù, non sul bordo vasca per tuffarmi, ma sul fondo, dove l’acqua non è acqua, ma solo parerti.
Amo ancora lo stile libero, la bambina dentro di me mette il turbo ogni volta, si accende come una lampadina, ma in questa corsia della mia vita, è la “rana” dove mi ritrovo di più: prendo respiri più ampi, scivolo via occupando tutto lo spazio che riesco, stirandomi sull’acqua senza pensare di dovermi rimpicciolire.
La cosa incredibile è che sono comunque molto veloce: incredibile che si possa respirare a un ritmo diverso e andare avanti comunque.
Penso alle parole di Mariangela Gualtieri “Acqua sono stata, / questo lo so. Sono stata acqua / e vento. […] Un giuramento. Un’attesa. […] Forse anche il mare. / E dunque – di cosa dovrei avere paura / adesso.”
Di cosa dovrei avere paura adesso?
Quando nuoto, non c’è più nessun signore sul bordo, ma in un certo senso c’è la bambina che osservava. E la immagino guardarmi come si guardano i riflessi di luce che solleticano la superficie dell’acqua.
Quest’anno ho letto pochissimo; tra i romanzi, “Il lido” di Libby Page (ed. La nave di Teseo) snoda la sua storia proprio attorno a una piscina.
Sulla copertina del libro, c’è un commento del Sunday Express che lo dipinge come “un romanzo che ti farà sentire bene.” e penso che, nella sua semplicità, fotografi benissimo questa storia.
Una storia che racconta quanto un luogo non sia mai davvero un luogo e basta, quanto possa fare la differenza nella vita di una persona, anche se noi, passandoci davanti, non lo notiamo neanche. Una storia che insegna a “guardare”, e a quanto spesso, invece, “vediamo” e basta. Una storia che parla di amicizia, del potere della condivisione e di come, a volte, aprirsi a qualcosa di diverso possa essere salvifico.
Un libro leggero, “da ombrellone”, senza essere superficiale, semplice senza essere banale, capace di lasciarti qualcosa di buono — anche se non è “il tuo genere” (come è successo a me).
Un romanzo che ti farà sentire bene.
Questa lettera sarà l’ultima delle poche di quest’anno…
Inside Out 2 e il doloroso passaggio dalla spensieratezza alla speranza. L’asse mente-intestino.
Il lato oscuro del "Sei nel tuo tempo." Il condominio dei 30enni.
… e io ringrazio di cuore chi è rimasto e chi si è aggiunto, anche se “sensibilandia” è una città un po’ caotica dove non si sa quando si riceverà la newsletter — mi è capitato di leggere di recente un articolo sul “come fare funzionare una newsletter” e, insomma, direi che non ci siamo ;), ma tant’è.
Grazie per leggermi, per dedicare del tempo a queste parole, grazie davvero.
Siete una sorta di “sogno nel cassetto”, una lucciola che lo alimenta e non è poco. Tramite questa piattaforma non sono solita interagire, vi affido le mie parole liquide e poi lascio che seguano il loro corso, girino in questa città invisibile — che alla fine siamo un po’ tutti insieme — e raggiungano chi ha la porta aperta, ma se voleste scrivermi qualcosa, di quest’ “anno a sensibilandia” e non, potete farlo qui.
Buon 2025,
vi auguro di viverlo “in conformità al desiderio che vi abita”.
Un abbraccio stretto.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.