L'inizio di un libro che non ho scritto
Sono nata in inverno.
Sono nata “prima”. A metà dicembre 1993, in tarda mattinata. Sono nata in un mese che non doveva essere “il mio”, in un anno che non doveva essere “il mio”. Sarei dovuta nascere a gennaio 1994, i primi giorni dell’anno. A mia madre hanno consigliato di farmi gareggiare negli sport, perché sarei stata la più giovane tra quelli del mio anno, perché questo mi avrebbe avvantaggiata. Sono nata prematura di quasi tre settimane. Un momento prima ero nel ventre di mia madre, immersa nel mio tempo, e un attimo dopo ero “fuori”, nel tempo degli altri: un “plop”, come mi ha raccontato mia madre, e poi il mio pianto — questo ha sentito. Una matassa di capelli neri che urlava — e adesso che ci penso mi dico: chissà che shock, da un momento all’altro passare a un nuovo mondo, senza neanche un’avvisaglia, un segnale che ti faccia dire “mi preparo”.
Non ho fatto tutta quella fatica che fanno di solito i neonati, per venire alla luce: quel muoversi alla vita perché se ne sente bisogno, quel puntellarsi sui gomiti e avanzare, incerti, spostandosi muovendo le spalle, mentre tua mamma, incurante del dolore, spinge con tutte le sue forze, con il solo obiettivo di vederti nata viva, in salute, al sicuro.
Ora ho trent’anni e penso che la mia vita abbia reclamato quelle tre settimane e quella fatica non fatta.
Sono nata prematura e pensavano che questo mi avrebbe avvantaggiata nelle gare; vorrei dire di aver beneficiato di questo “prima”, di aver bruciato le tappe, ma in realtà penso di aver interiorizzato un bisogno di tempo, un atavico “ancora”: un attimo ancora per sentirmi pronta, pronta alla vita.
Sono morta in primavera.
Era il 2016 e ricordo esattamente il momento. Il momento in cui il mio tempo si è fermato e il tempo degli altri è diventato un film proiettato su una parete spoglia.
Mia madre, la mia stella polare, mi ha dato la vita un’altra volta e, questa volta, l’ha dovuto fare con tutte le sue forze, con il solo obiettivo di vedermi viva, in salute, al sicuro: una nuova gravidanza a cui sicuramente non era preparata. L’istinto materno non si perde mai, dicono, ed è vero, resiste e persiste: penso sia la forma più inscalfibile e primitiva della speranza, qualcosa che non si può fermare. Mi ha dato nuovamente tempo, riparo, tutte le sue risorse ed energie, perché tornassi a sentirmi gambe, braccia, polmoni, cuore, mente, occhi. Persona. Perché fossi pronta, un’altra volta.
E tutta quella fatica che non ho fatto per nascere la prima volta, la sto facendo ora, per questa rinascita.
Rinascere da adulti è un film fantascientifico. C’è il tuo tempo biologico che si mischia con il tuo tempo di vita e tu devi reimparare a vivere nella trama di spazio che creano. Tieni per mano chi sei stata e chi avresti voluto diventare, e ti chiedi, se invece, dovresti lasciarle andare. Sei chi sei diventata e il colmo è che sei stanchissima, perché rinascere da adulti non è come nascere da neonati; sono rimasta sorpresa da quanta forza abbiano i bambini, quando con le loro piccole dita si aggrappano e stringono ciò che vogliono per loro, nel loro egoismo infantile che li protegge. Vorresti essere solo determinati bisogni e farti muovere da questi, in un’unica direzione, ma ne sei una costellazione: i bisogni di chi eri, di chi sei, di chi vorresti essere. E poi c’è questa cosa qua: chi vorresti essere? Perché quando rinasci da adulto, non puoi essere e basta, non hai più quel lusso e privilegio, dello “stare” e vedere, perché “tanto avrai tempo, tutto quello che ti serve, per imparare”.
Quel bisogno atavico di tempo in più, quell’“ancora” che forse è stato il mio primo pianto nel mondo, si è riversato, in una rottura delle acque, in qualcosa di diverso, in un tempo in cui fare fatica per poter nascere in una vita che ti abbracci, come tua madre quando sei nata la prima volta, che ti faccia sentire così.
Se a volte mi chiedo quale storia sarebbe la mia, se fossi nata a gennaio del 1994, e quale, se non fossi morta, beh, questa è la storia di come sto cercando di partorirmi ed è dedicata a mia madre che lo ha reso possibile.
Cosa sto leggendo: poco e niente.
- Sulla metro, mi faccio accompagnare dal libro “La grande storia della Prima Guerra Mondiale” di Martin Gilbert (primo volume).
- Sul comodino, mi aspetta “La nuova me” di Halle Butler, che mi ha rapito per la copertina e conquistato per la trama (spero non mi deluda).
- Che mi aspetta in attesa di essere finito: “La nascita di un erede” (fantasy comfort) e “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf — ancora non ho capito perché non li ho finiti, ma prima o poi accadrà.Cosa ho visto: ancora meno.
Solo due consigli: il documentario “Sei ciò che mangi: gemelli a confronto” su Netflix, la miniserie autoconclusiva “Bad sisters” su Apple tv+.
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).